Trattamento
intraoperatorio del paziente cardiopatico
Gianni Clementi e Francesco Giordano
Il paziente coronaropatico
tollera male le condizioni cliniche in cui si realizza uno sbilanciamento
tra apporto e consumo di ossigeno, vale a dire gli stati di desaturazione
arteriosa, di anemia, di ipotensione grave e gli stati iperdinamici (1).
Nel contesto della
patologia coronarica vanno identificate differenti situazioni cliniche che
si associano ad un profilo di rischio operatorio crescente a parità di intervento
da eseguire (2-4): l’angina stabile, l’angina instabile, l’infarto pregresso
(occorso oltre otto settimane dall’intervento), recente (verificatosi entro
cinque-otto settimane dall’intervento) e l’infarto acuto (occorso nei 30 giorni
precedenti l’intervento). Tuttavia, prevalentemente in pazienti diabetici
con disfunzione del sistema nervoso autonomo (compromissione del parasimpatico
cardiaco), l’ischemia miocardica può verificarsi in assenza di angina; si
configura così il quadro clinico dell’ischemia silente, il cui riconoscimento
identifica una sottopopolazione di pazienti a rischio elevato di infarto e
morte cardiaca improvvisa (5).
L’angina stabile è
espressione di una stenosi coronarica fissa ed è caratterizzata da una soglia
anginosa ben identificabile, mentre nell’angina instabile le lesioni coronariche
sono concomitanti ad una spiccata vasoreattività che media un quadro clinico
caratterizzato da un rapido progredire dei sintomi verso uno stato di male
anginoso. In effetti, nella casistica di Shah et al., l’incidenza di IMA perioperatorio
nei pazienti con angina instabile è del 28% (2).
Nel paziente cardiopatico
ischemico, l’esistenza di una stenosi coronarica fa sì che il miocardio si
trovi talora in situazioni in cui l’ossigeno disponibile (apporto di ossigeno)
è inferiore ai bisogni metabolici (consumo di ossigeno). Il rischio di reinfarto
è stato stimato del 27%, dell’11% e del 4% rispettivamente nei pazienti sottoposti
ad intervento entro 3 mesi, nei 3-6 mesi e oltre 6 mesi da un pregresso infarto
miocardico (3). Un parere autorevole sull’argomento è stato recentemente espresso
dall’American College of Physicians (ACP), che ha invitato a considerare a
rischio aggiuntivo di reinfarto i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia
non cardiaca nelle otto settimane successive ad un episodio infartuale (4).Le
cardiopatie valvolari sono da temere maggiormente le stenosi rispetto alle
insufficienze valvolari. Tra tutte le valvulopatie è particolarmente temibile
la stenosi aortica (6).
Nella stenosi aortica,
l’ostruzione critica al flusso e l’ischemia miocardica dovuta ad insufficiente
perfusione coronarica possono condurre ad arresto cardiocircolatorio refrattario
alle usuali manovre di rianimazione cardiopolmonare.
Nel casi di stenosi
mitralica l’ipertensione del circolo polmonare e la diminuita compliance polmonare
rappresentano le alterazioni fisiopatologiche più rilevanti.
Nei pazienti con insufficienza
mitralica e/o aortica, l’evenienza di bradicardia e l’aumento delle resistenze
vascolari sistemiche aumentano la frazione di rigurgito; queste condizioni
cliniche possono pertanto condurre ad un deterioramento dell’assetto emodinamico.
Breve accenno merita
il trattamento del paziente dalla premedicazione all’inizio dell’induzione
dell’anestesia dato che la metà degli episodi ischemici avviene in tale periodo
(1).
Con l’eccezione di
alcuni farmaci (nitroglicerina, nifedipina), che vengono assorbiti rapidamente
attraverso la mucosa sottolinguale e possono essere somministrati d’urgenza
rispettivamente in occasione di crisi anginose e di crisi ipertensive, la
via di somministrazione di scelta dei medicamenti cardiovasoattivi nel periodo
perioperatorio è quella endovenosa.
La somministrazione
endovenosa consente infatti di prescindere dalla variabilità nella risposta
al farmaco dovuta all’alterazione dei processi di assorbimento, di individuare
esattamente la dose di farmaco che produce l’effetto desiderato e di mantenere
tale effetto costante mediante infusione endovenosa. Tali obiettivi possono
essere raggiunti quando la somministrazione dei farmaci cardiovasoattivi viene
effettuata con precisione, vale a dire mediante pompe infusionali in vie venose
dedicate. A questo proposito, per quanto consigliabile nei pazienti con compenso
labile, non esistono dati certi a supporto della pratica di incannulare sistematicamente
un vaso venoso centrale al fine di infondere farmaci.
È comunque sconsigliabile
l’infusione di più farmaci cardiovasoattivi in un unico condotto venoso utilizzando
prolunghe e raccorderie, come pure l’infusione in una stessa linea venosa
di farmaci cardiovasoattivi e liquidi di riempimento. In entrambi i casi,
modificare la velocità di infusione di una soluzione significa modificare
la velocità di somministrazione del volume di liquido (e ovviamente la quantità
di farmaco) che è contenuto distalmente al raccordo, cosa che può causare
alterazioni emodinamiche tanto più gravi quanto maggiore è la concentrazione
dei farmaci in soluzione.
Come ultima osservazione
di carattere generale va ricordato che l’impiego della via intramuscolare
deve essere considerato con cautela nei pazienti in terapia anticoagulante
- e molti pazienti cardiopatici lo sono - per il rischio di ematomi nel punto
di iniezione.
Aspetti specifici
sulla terapia
con farmaci cardiovasoattivi
Esiste consenso nel
ritenere che un paziente ben compensato sul piano clinico grazie ad una terapia
medica adeguata sia nelle condizioni migliori per reggere lo stress del periodo
perioperatorio e che, al fine di garantire un compenso clinico ottimale, la
terapia assunta cronicamente debba essere continuata perioperatoriamente.
Di fatto, non sono
note interazioni tra farmaci cardiovasoattivi ed anestetici di entità tale
da rendere necessaria la sospensione preoperatoria dei primi. Al contrario,
è stato dimostrato che la sospensione dei medicamenti cardiovasoattivi può
essere associata ad alterazioni emodinamiche (25,27).
Quanto alla somministrazione
della terapia prima dell’intervento, l’assunzione di acqua nell’ora
precedente l’induzione dell’anestesia è da ritenersi sicura nei pazienti senza
patologie dell’apparato gastroenterico. Pertanto, la terapia può essere assunta
per via orale alle dosi abituali prima dell’intervento.
Quanto alla somministrazione
della terapia dopo l’atto chirurgico, nel caso in cui questo
non comporti o non si accompagni ad alterata funzionalità gastrointestinale
ed il paziente sia ben collaborante, la terapia potrà essere assunta come
di consueto. Nel caso invece in cui la via enterale sia preclusa, è necessario
considerare altre modalità di assunzione dei medicamenti cardiovasoattivi
per evitare la ripresa della sintomatologia cardiologica (in relazione al
naturale esaurimento dell’effetto terapeutico dei farmaci precedentemente
assunti) e/o l’insorgenza di sindromi da sospensione. Queste ultime, descritte
per gli a2-agonisti e i b-bloccanti, si manifestano come crisi ipertensive
con tachiaritmie, che a loro volta causano ischemia miocardica.
A tutt’oggi, gli studi
mirati ad evidenziare una possibile relazione tra mantenimento o sospensione
della terapia cardiovasoattiva ed incidenza di complicanze cardiovascolari
perioperatorie in popolazioni a rischio sono pochi ed esclusivamente limitati
a soggetti con cardiopatia ischemica, che è di gran lunga la cardiopatia più
frequente. A dispetto del numero esiguo, i risultati che emergono da tali
studi sono rilevanti sul piano clinico.
Per quanto attiene
ai b-bloccanti - e all’acido acetilsalicilico - è stato dimostrato (evidenza
forte) che l’incidenza e la gravità dell’ischemia miocardica perioperatoria
è significativamente inferiore nei pazienti coronaropatici o con fattori di
rischio per coronaropatia che giungono all’intervento di chirurgia non cardiaca
con la terapia b-bloccante mantenuta fino all’immediato preoperatorio e ripresa
precocemente nel postoperatorio (25). L’azione cardioprotettiva dei b-bloccanti
è conseguente all’effetto inotropo e cronotropo negativo che, limitando la
risposta cardiaca in contrattilità e frequenza allo stimolo algogeno, riduce
il consumo di ossigeno del miocardio, di cui al tempo stesso migliora la perfusione.
A fronte dei benefici
enunciati, la terapia perioperatoria con b-bloccanti non è esente da rischi
iatrogeni, specie in contesti clinici complessi (pazienti con riserve limitate
in condizioni critiche). L’impossibilità ad aumentare la portata cardiaca
per effetto della terapia b-bloccante può infatti condurre a non soddisfare
le richieste tessutali, specialmente quando coesistono anemia, ipovolemia,
febbre, stati di ipercatabolismo. Ove possibile, una opportuna correzione
di tali condizioni , unitamente alla messa in atto di un monitoraggio emodinamico
adeguato, diventa di importanza determinante.
Per quanto raccomandata,
la somministrazione perioperatoria di calcio antagonisti e nitrati non risulta
essere associata ad un effetto preventivo sull’ischemia perioperatoria evidente
quanto quello emerso per i b-bloccanti. Questo verosimilmente a ragione del
meccanismo stesso d’azione di questa classe di medicamenti. Nei pazienti in
terapia con calcio-antagonisti e nitrati, infatti, la risposta in frequenza
cardiaca allo stimolo simpatico può non essere marcatamente depressa. Lo stimolo
algogeno può quindi essere responsabile di uno squilibrio acuto tra apporto
e consumo di ossigeno, con conseguente ischemia.
In questo contesto,
l’impiego perioperatorio degli a2-agonisti potrebbe trovare uno spazio proprio,
tanto più se si considera il fatto che questi medicamenti sono provvisti d’azione
sedativa, ansiolitica ed analgesica e limitano l’entità del brivido postoperatorio,
che comporta rilevante consumo di ossigeno (26).
Considerazioni particolari
vanno fatte in merito all’impiego perioperatorio di ACE-inibitori, una classe
di farmaci largamente utilizzati in pazienti con ipertensione arteriosa e
con deficit di pompa cardiaca. In pazienti ipertesi trattati con ACE-inibitori,
l’induzione della narcosi si può accompagnare a severi episodi ipotensivi,
talora correggibili solo ricorrendo a farmaci vasopressori. Per questo motivo
alcuni Autori consigliano, nel preoperatorio, di sospendere l’ACE-inibitore,
sostituendolo con antipertensivi di altra classe farmacologica. I tempi minimi
consigliati di sospensione dell’ACE-inibitore prima di un intervento chirurgico
sono di 12 h per il captopril e il quinapril e di 24 h per l’enalapril, il
linosipril e il ramipril (27). Ammesso che la sospensione dell’ACE-inibitore
possa essere ritenuta praticabile nel contesto di una cardiopatia ipertensiva,
bisogna riflettere sull’opportunità di tale comportamento nei pazienti con
funzione contrattile depressa, in cui l’ACE-inibitore è il vasodilatatore
più largamente utilizzato. In questi pazienti infatti un aumento del postcarico
può accompagnarsi a scompenso cardiocircolatorio acuto. L’esperienza maturata
su pazienti in attesa di trapianto cardiaco sottoposti a procedure di chirurgia
non cardiaca consente di affermare che il trattamento perioperatorio dei soggetti
in precario compenso cardiocircolatorio non può essere standardizzato ma deve,
in ogni singolo caso, essere guidato dal monitoraggio emodinamico (vedi oltre).
Sebbene gli antiaritmici
di classe Ia e Ib interferiscano con i curari non depolarizzanti (prolungandone
la durata d’azione), l’eventuale terapia antiaritmica in corso deve essere
mantenuta nel periodo perioperatorio per evitare la ripresa delle aritmie.
Per quanto siano stati riportati casi di ipotensione refrattaria, bradicardia
resistente all’atropina e dissociazione atrioventricolare nei pazienti in
trattamento con amiodarone (28), la sospensione di tale terapia nel preoperatorio
è inopportuna per ragioni cliniche (ripresa delle aritmie) e farmacocinetiche
(il tempo di emivita dell’amiodarone è pari a 29-100 giorni).
Per quanto attiene
ai pazienti in trattamento endovenoso continuo con inotropi, nel perioperatorio,
l’infusione di questi farmaci non va sospesa ma ottimizzata. A tal fine, il
monitoraggio emodinamico è necessario. L’induzione della narcosi può associarsi
a ipotensione (da deficit contrattile del cuore) con ipoperfusione, contenibile
in parte somministrando gli anestetici lentamente, alle dosi minime possibili
per ottenere l’effetto desiderato e tenendo conto del fatto che la latenza
dell’effetto può essere marcatamente aumentata. Nel corso dell’intervento,
le variazioni volemiche acute vanno contrastate e prontamente corrette. Allo
stesso modo devono essere corrette le disionie, che possono causare gravi
turbe del ritmo cardiaco. La presa in carico del cardiopatico inizia con l’esame
clinico, il colloquio col paziente e la prescrizione della preanestesia. Obiettivo
della premedicazione è indurre una modesta sedazione e ridurre l’ansia (e
lo stato iperdinamico che ad essa si associa) senza tuttavia causare eccessiva
sedazione e depressione respiratoria. Questi obiettivi sono generalmente soddisfatti
utilizzando blande dosi di benzodiazepine, che al momento rappresentano la
classe di farmaci di impiego più comune in premedicazione. In contesti particolari
(pazienti cardiopatici e ipertesi, candidati ad interventi di chirurgia vascolare)
può essere opportuno utilizzare un farmaco ad azione a2-agonista in alternativa
o in associazione con le benzodiazepine.
Nei pazienti con angina
stabile o precedentemente sottoposti a bypass aortocoronarico o angioplastica,
come precedentemente detto, l’obiettivo perioperatorio è evitare valori estremi
di pressione arteriosa e di frequenza cardiaca. Tuttavia, poichè episodi ischemici
possono talora verificarsi anche in assenza di fattori causali immediatamente
evidenti, è importante mettere in atto un monitoraggio emodinamico adeguato.
Nei pazienti con angina
a bassa soglia, con angina instabile o infarto recente va valutata la possibilità
di trattare la coronaropatia prima di effettuare l’intervento di chirurgia
non cardiaca. Nel caso in cui questo rivesta carattere d’urgenza o d’emergenza
e sia un intervento ad elevato rischio di complicanze cardiache (es: chirurgia
vascolare) è da considerare la messa in atto di un monitoraggio emodinamico
ed è da valutare, anche in relazione con la realtà operativa in cui l’anestesista
si trova ad operare, la possibilità di utilizzare perioperatoriamente la contropulsazione
aortica.
I pazienti valvulopatici
anche quelli con la semplice aorta bicuspide, che non ha altre implicazioni
emodinamiche, devono effettuare la profilassi antibiotica dell’endocardite
infettiva (28).
Nei pazienti con stenosi
aortica in classe non chirurgica (cioè con gradiente transvalvolare aortico
di picco <50 mm Hg e frazione di eiezione del ventricolo sinistro buona),
gli obiettivi da soddisfare sono: il mantenimento di un ritmo sinusale con
frequenza compresa tra 65 e 90 battiti/minuto, il mantenimento di una volemia
normale e di resistenze sistemiche medio-alte. L’ipotensione, specie diastolica,
e la tachicardia vanno prontamente corrette. Nei pazienti con stenosi aortica
critica, la correzione della valvulopatia mediante sostituzione valvolare
o valvulotomia percutanea deve precedere, ove possibile, l’esecuzione dell’intervento
di chirurgia non cardiaca. Se questo non fosse differibile, nel contesto clinico
di edema polmonare franco o pre-edema, si può considerare la possibilità di
una contropulsazione aortica perioperatoria. Va da sé che questa misura terapeutica
può essere praticata solo in contesti particolari, vale a dire laddove esista
un buon rapporto di collaborazione con il consulente cardiologo e vi sia concretamente
la disponibilità di un contropulsatore aortico. Nella stenosi mitralica serrata
la correzione della valvulopatia dovrebbe precedere, ove possibile, l’esecuzione
dell’intervento di chirurgia non cardiaca. Nelle stenosi mitraliche, anche
in classe non strettamente chirurgica (cioè con area mitralica >1.5 cm2)
sono spesso presenti fibrillazione atriale (cronica o parossistica), ipertensione
polmonare e sovraccarico ventricolare destro. Il ritmo sinusale è importante
per il compenso emodinamico. Tuttavia, nei pazienti in fibrillazione atriale
cronica, il ripristino del ritmo sinusale mediante cardioversione elettrica
o farmacologica è spesso impossibile. In questi soggetti, pertanto, la fibrillazione
atriale va accettata. Nel caso in cui la frequenza di risposta ventricolare
sia molto elevata, è tuttavia giustificato intervenire farmacologicamente,
poichè solo la riduzione della frequenza ventricolare consente un riempimento
ventricolare adeguato, da cui dipende criticamente la portata cardiaca. Nel
paziente con stenosi mitralica è poi necessario mantenere normale la volemia,
contrastare l’eccessiva vasodilatazione sistemica ed evitare (o correggere)
gli stati di ipossiemia, ipercapnia e acidosi metabolica che aumentano i valori
di pressione polmonare, già elevati in questa patologia. L’intervento, dove
non esistano condizioni cliniche che ne rendono inopportuno il differimento,
deve aver luogo dopo il raggiungimento delle condizioni di compenso cardiovascolare
migliori possibili con la terapia medica. L’obiettivo perioperatorio è evitare
brusche cadute del precarico, repentini aumenti del postcarico e le situazioni,
anche iatrogene, che deprimono la già scadente contrattilità.
Noto il motivo per
cui è stato impiantato uno stimolatore endocavitario (tipo di bradiaritmia),
se ne devono conoscere tipo (stimolatore monocamerale o bicamerale) e modalità
di programmazione (stimolazione fissa o demand; soglia di stimolazione e frequenza
di stimolazione). Nel caso di interventi di chirurgia maggiore in pazienti
totalmente dipendenti da pace-maker oppure di interventi in cui si prevede
estensivo uso di bisturi elettrico, può essere opportuno riprogrammare lo
stimolatore da modalità demand (VVI) a fissa (VOO) ed aumentare la frequenza
di stimolazione. Generalmente i pace-maker vengono impostati a 70-75 battiti/minuto.
Tale frequenza tuttavia può non essere sufficiente a garantire l’incremento
di portata cardiaca desiderabile nel corso dell’intervento chirurgico e nel
postoperatorio. Nel caso in cui la riprogrammazione non sia possibile, va
considerata la possibilità di posizionare un elettrostimolatore endocavitario
flottante.
Un problema particolare
è rappresentato dall’interferenza del bisturi elettrico nel funzionamento
del pace-maker e dei defibrillatori impiantabili.
Per ridurre l’entità
dell’interferenza tra pace-maker ed elettrobisturi è necessario impiegare
elettrocauteri bipolari (anziché unipolari), limitandone l’uso a brevi scariche.
Inoltre la piastra isolante a contatto col paziente deve essere posta il più
lontano possibile dalla scatola del pace-maker evitando che questa sia situata
tra la piastra e il campo operatorio.
Pazienti con protesi
valvolari meccaniche. Le problematiche peculiari in questi pazienti sono in
relazione alla necessità di un’anticoagulazione cronica (vedi: Aspetti specifici
sulla terapia con farmaci attivi sull’emostasi) e all’elevata suscettibilità
alle infezioni della valvola protesica.
I portatori di protesi
valvolari, e quelli con aorta bicuspide devono effettuare la profilassi antibiotica
dell’endocardite infettiva in occasione di procedure diagnostiche e terapeutiche
potenzialmente associate a batteriemia (incluse le procedure odontoiatriche!)
e di fatti flogistici a possibile eziologia batterica (flogosi delle vie respiratorie,
delle vie urinarie, escoriazioni cutanee (28). L’anestesia generale e loco-regionale,
se correttamente applicate, non presentano differenze importanti in merito
al rispetto della funzione cardiaca. La scelta di una particolare tecnica
quindi deve essere effettuata in base al tipo di procedura chirurgica, alle
caratteristiche fisiche e psicologiche del paziente, alla familiarità dell’anestesista
con la tecnica prescelta, all’ambiente in cui avrà luogo il decorso postoperatorio
(con speciale riferimento alla possibilità di trasferire il paziente in un
ambiente intensivo).
Allo stato attuale
delle conoscenze, anche per quanto attiene all’incidenza di complicazioni
cardiovascolari perioperatorie, non pare esista differenza tra tecniche di
anestesia generale e loco-regionale (71). Vale la pena di ricordare a questo
proposito il lavoro di Shah (2), che stima pari al 3% l’incidenza di infarto
miocardico dopo interventi in anestesia loco-regionale ed identifica i pazienti
diabetici ed i coronaropatici con ischemia silente come sottogruppi di pazienti
a rischio di complicanze particolarmente elevato. Il monitoraggio di base
deve prevedere la rilevazione in continuo dell’ECG con cavo a 5 derivazioni
e possibilmente 2 derivazioni in lettura continua simultanea (preferibilmente
D2 e V4 o V5), pulsossimetria, capnometria,
rilevazione della temperatura nasofaringea e pressione arteriosa cruenta.
La gestione della volemia non può prescindere dalla valutazione oraria, oltre
che delle perdite chirurgiche, della diuresi. Per gli interventi di classe
A e buona parte di quelli in classe B, è opportuna la incannulazione di un
vaso centrale per la valutazione della pressione venosa centrale.
Tecniche supplementari
di monitoraggio (analisi del tratto ST, cateterismo destro, ecografia transesofagea)
devono essere messe in atto in casi selezionati.
L’ incuneamento con
catetere di Swan Ganz nel paziente ischemico non è da identificare con il
precarico ma serve ad evitare che cambiamenti di compliance di natura ischemica
siano la causa di eventi acuti intraoperatori di edema polmonare od ischemia
subendocardica da sovraccarico (Fluid Challenge, leg lifting, od altre sconsiderate
manovre che vengono usate per evitare il posizionamento del catetere in polmonare
ma risultano pericolose nel coronarico ischemico (35).
Il funzionamento del
ventricolo sinistro è sotto il controllo di tre parametri; preload, afterload
e contrattilità cardiaca. Sebbene il catetere di Swan-Ganz misurando la gittata
cardiaca e la pressione di occlusione polmonare (PAOP) faciliti la valutazione
clinica della funzione cardiaca globale, questi parametri hanno limiti significativi
nel fatto che un catetere posto nel cuore destro è utilizzato per stimare
la funzione del sinistro.
Nel muscolo isolato
il preload è definito come la forza di stiramento al quale la fibra
muscololare è sottoposta in posizione di rilasciamento: Nel cuore intero si
sostituisce la lunghezza della fibra con il volume telediastolico , che per
una normale compliance del ventricolo sinistro si considera correlato con
la pressione telediastolica.
Analogamente l’afterload
è definito come la forza che si oppone all’accorciamento del muscolo. Nel
cuore intero è lo stress imposto alla parete ventricolare durante la sistole.
Clinicamente viene usato il dato di SVR=(MAP-RAP)/CO. Siccome ogni parametro
di questa equazione ha il suo margine di errore, il dato stesso deve essere
interpretato con cautela, soprattutto per non trattare come vasocostrizione
la sindrome in cui il calcolo di resistenze elevate è dovuto alla gittata
estremamente bassa, ciò per evitare trattamenti farmacologici inappropriati.
Il catetere di Swan-Ganz
fornisce utili dati sulla variazione della volemia intraoperatoria, portata
cardiaca e sulle resistenze vascolari, a patto che queste ultime siano valutate
attentamente e non identificate con vasocostrizione quando la componente cardiaca
è bassa e cioè nelle condizioni in cui l’indice cardiaco è inferiore a 2 litri,
in questo caso bisognerà cercare di aumentare la gittata cardiaca e migliorare
iil preload, per poi agire con cardiocinetici.
Lo Swan-Ganz a fibre
ottiche in aggiunta consente la misurazione in continuo della saturazione
venosa mista di ossigeno (SvO2) che, una volta escluse variazioni importanti
di SaO2 e di emoglobina, è indicativa di variazioni (nello stesso senso) della
portata cardiaca.
L’impatto dell’impiego
intraoperatorio del cateterismo cardiaco destro nella gestione dei pazienti
è stato valutato dall’ASA nel 1993 (30). Dagli studi esaminati non sono emerse
evidenze forti per motivare l’impiego intraoperatorio del catetere di Swan-Ganz,
il cui utilizzo è consigliabile solo nelle situazioni che prevedibilmente
espongono il paziente ad elevato rischio di compromissione emodinamica.
Nella nostra esperienza,
il posizionamento intraoperatorio del catetere di Swan-Ganz è consigliabile
negli interventi caratterizzati da elevato stress emodinamico e marcato spostamento
di fluidi tra il compartimento centrale e i comparti tessutali. Esso è inoltre
utile nei pazienti con depressa funzione contrattile, in cui la conoscenza
del valore di pressione venosa centrale non è indicativa delle pressioni di
riempimento nelle cavità sinistre e pertanto non può essere impiegata per
guidare la terapia cardiovasoattiva. L’Ecografia transesofagea (TEE) fornisce
informazioni qualitative e quantitative di elevato valore diagnostico sulla
volemia, sulla cinesi globale e segmentaria di entrambi i ventricoli e sull’apparato
valvolare cardiaco.
Per quanto attiene
specificamente alle variazioni della cinesi segmentaria in concomitanza di
episodi ischemici, i riscontri ecocardiografici sono più numerosi e più precoci
rispetto alle corrispondenti modificazioni elettrocardiografiche. Malgrado
al momento attuale ci sia poca evidenza diretta che la diagnosi di ischemia
miocardica mediante TEE migliori la prognosi, l’ASA nel suo documento del
1996 conclude che tale evidenza si può desumere indirettamente dagli studi
che dimostrano come un precoce trattamento dell’ischemia e dell’infarto miocardico
migliorino la sopravvivenza (31).
Il rischio di ischemia
miocardica è maggiore nelle prime 48-72 h postoperatorie; pertanto le misure
di monitoraggio dell’ischemia miocardica devono essere protratte almeno per
questo periodo. In presenza di risposta iperdinamica allo stimolo chirurgico
(sternotomia), gli anestetici inalatori provocano nei suddetti pazienti una
consistente riduzione dell’apporto ematico senza diminuire il consumo di ossigeno
miocardico .
La vasodilatazione
del letto coronarico può essere provocata dalla stessa ischemia miocardica
attraverso la produzione di adenosina , che essendo il fattore più importante
per la vasodilatazione coronarica ha permesso di introdurre il concetto di
riserva vascolare coronarica. I farmaci anestetici agiscono sia direttamente
sul circolo coronarico sia con la mediazione di impulsi nervosi generati da
riflessi barocettori.
Sembra confermato che
l’apporto di ossigeno miocardico sia più importante del consumo nella genesi
dei fenomeni ischemici. Il concetto è insito nell’indice di Buffington, cioè
il rapporto tra pressione arteriosa media e frequenza cardiaca si usa come
indicatore di ischemia miocardica regionale. Buffington osservò 16249 pazienti
classificati dalla CASS come cardiopatici ischemici, trovando nel 23% di essi
predisposizione anatomica al furto coronarico. Per valutare la riserva coronarica
di un paziente e quindi la sua capacità di affrontare l’intervento programmato
è necessaria la prova da sforzo con scintigrafia al tallio o in alternativa
la vasodilatazione farmacologica con dipiridamolo. L’ecografia preoperatoria
permette di valutare le alterazioni funzionali legate a ridotta riserva coronarica,
simulando le alterazioni indotte dalla tachicardia, spesso presente durante
l’intervento, inducendola con la dobutamina. Particolare attenzione merita
la ricerca di episodi di ischemia silente la cui presenza è spesso svelata
dall’ECG dinamico.
Nel postoperatorio
immediato tali situazioni sono fondamentalmente dovute al brivido e al dolore.
Pertanto, un buon riscaldamento corporeo e una terapia analgesica adeguata
costituiscono i presupposti per un decorso postoperatorio non complicato da
problematiche di natura cardiaca, si possono inoltre usare fermaci come il
tramadolo o la meperidina che abbassano la soglia del brivido di circa un
grado.
Indipendentemente dall’adeguatezza
della terapia analgesica, nel periodo postoperatorio l’organismo deve affrontare
uno stato di stress dovuto in ogni caso ad un aumentato catabolismo e, talora,
ad anemia, ipovolemia e ipertermia. Nel paziente cardiopatico, data la spesso
limitata possibilità di adeguare la portata cardiaca negli stati di stress,
il verificarsi di queste situazioni cliniche comporta il concreto pericolo
di una inadeguata perfusione tessutale. Una cura particolare va quindi posta
nell’evitare gli squilibri volemici e nel trattare gli stati ipertermici (32).
Quanto alla relazione
tra anemia e ischemia miocardica intra e postoperatoria, un recente lavoro
di Hogue et al (39) ha dimostrato che l’incidenza di complicanze ischemiche
è maggiore nei pazienti anziani con valori di ematocrito <28%, specialmente
se coesiste tachicardia. Questa evidenza motiva il consiglio di considerare
come soglia per la trasfusione nel paziente critico un valore di emoglobina
di 10 g/dl (34). Mentre il ruolo di pompa del cuore è stato sufficientemente
studiato nello shock (52) dove è mancata la dimostrazione del fatto che l’uso
dei cardiocinetici migliorasse l’outcome dei pazienti in shock settico in
"Oxigen supply dipendency".
La valutazione del
quadro emodinamico risulta utile nel prevenire il danno ischemico miocardico
pur annotando tutti i limiti del monitoraggio con catetere di Swan Ganz, esso
è tuttora poco utilizzato nel nostro paese (49) rispetto agli altri paesi
europei e del Nord America ed è insostituibile per un’adeguata protezione
miocardica in tutti gli stati di shock.
La definizione dei
tre tipi di shock inoltre non è netta in quanto il persistere di ipoperfusione
splancnica può trasformare il cardiogeno in settico mentre l’ipovolemico può
esitare in SIRS e quindi in shock settico. I farmaci cardiocinetici vanno
usati attentamente in funzione del loro effetto sul circolo splancnico anche
per questo (44).
L’osservazione che
i pazienti capaci di produrre maggiori gittate cardiache avevano maggiore
sopravvivenza non è ripetibile aumentando la gittata cardiaca con farmaci
cardiocinetici (45,52) anzi l’effetto calorigenico di adrenalina noradrenalina
e dopamina possono accentuare l’ischemia miocardica costringendo il ventricolo
sinistro ad un inutile e dannoso lavoro.
Questi farmaci vanno
usati in caso di insufficienza documentata del ventricolo destro per migliorare
la perfusione sistolica dello stesso limitando al massimo l’effetto negativo
sulla frequenza cardiaca usando un precarico adeguato.
Notevole importanza
va attribuita alla funzione diastolica del ventricolo sinistro (specialmente
nei pazienti con ipertofia ventricolare sinistra) . Il rapporto tra l’altezza
massima del picco della velocità di flusso (E:A ratio), rilevati con echodoppler
transmitralico risente significativamente delle resistenze periferiche e della
pressione di perfusione coronarica.
Per ottenere un adeguato
riempimento del ventricolo destro nello shock ipovolemico incipiente la "upstream
pressure" descritta da Guyton (36), che è la pressione che normalmente viene
mantenuta dalla vis a tergo , è mantenuta inizialmente con una vasocostrizione
ma ad un certo punto questa diverrà insufficiente e si avrà una caduta critica
del ritorno venoso.
La "downstream pressure"
(36) avrà inizialmente la funzione di mantenere il gradiente pressorio, purtroppo
questo fenomeno è limitato dal collasso dei vasi venosi che diventano componenti
resistivi nel momento in cui collassano. La protezione miocardica negli stati
di shock vede il ventricolo destro assumere importanza determinante e di ciò
è opportuno tenere conto prima di trattare l’aspetto farmacologico del problema.
Emodinamicamente il
ventricolo destro pompa contro un circolo polmonare a basse resistenze e ciò
comporta che la curva pressione volume ha forma triangolare, nel caso in cui
si abbia un aumento della pressione polmonare tale curva diviene quadrata
rendendo possibile il calcolo dell’elastance del ventricolo destro allo stesso
modo del sinistro (37). Il preload del ventricolo destro in condizioni normali
è scarsamente correlato con il volume telediastolico. Il ventricolo destro
risponde alla riduzione della contrattilità con tre menccanismi:
1. riduzione della
componente settale che condivide col sinistro;
2. dilatazione per
l’aumento del residuo telediastolico;
3. ed infine il più
lento rilasciamento diastolico nell’ipertensione polmonare favorisce la sistole
venticolare sinistra.
Meno sviluppato del
sinistro e la sua perfusione coronarica è sistodiastolica, l’estrazione di
ossigeno è sempre massimale per cui un incremento delle richuieste metaboliche
è ottenuto con un aumento della vasodilatazione per lo più ad opera dell’adenosin
monofosfato che dopo la Circolazione Extracorporea aumenta di 100 volte (67).
I segni clinici di insufficienza del VD sono di difficile interpretazione.
L’innalzamento della
pressione atriale destra spesso manca mentre la sua morfologia cambia mostrando
onda y profonda ed onda v elevata.La derivazione V4r è utile nella valutazione
dell’ischemia del ventricolo destro. da valutare l’utilita’ della misurazione
della frazione di eiezione ventricolare destra in quanto non modificata dal
precarico come la sinistra mentre risponde alle variazioni di postcarico.
Durante la ventilazione
meccanica la pressione inspiratoria e la intratoracica media sono positive
e ciò determina una brusca riduzione del preload ventricolare destro. Se il
polmone è gravemente iperespanso, come nel caso di iperinflazione dinamica
in COPD anche l’afterload del ventricolo dx entra in equazione. Il risultato
è una caduta della pressione sistemica che si osserva comunemente in sala
operatoria all’induzione di pazienti ipovolemici o disidratati. L’incremento
della pressione intratoracica è determinato da fattori come la compliance
polmonare e quella della parete toracica.
Maggiore sarà la pressione
intrapleurica quando la compliace polmonare sarà alta e quella toracica bassa.
La riduzione della pressione sistemica col ritorno venoso ostacolato dalla
pressione intratoracica può essere misurato con il delta down (37) osservato
dopo l’inspirazione a pressione positiva aspettando un secondo circa.La pressione
positiva influenza il ventricolo sinistro spremendo il sangue dell’albero
polmonare e spostando il setto verso destra, ne risulta un aumento dello stroke
volume del ventricolo sinistro e il polso arterioso avrà un incremento delta
up che sarà minimo nello shock ipovolemico, massimo in quello congestizio
(cardiogeno).
La protezione miocardica
deve essere ottimizzata in relazione al metabolismo miocardico negli stati
di shock , l’argomento è ancora controverso ma all’introduzione della GIK
(Soluzioni ripolarizzanti a base di insulina e potassio ) (38) non è seguita
conferma dell’effettivo beneficio dell’infusione di tali soluzioni in quanto
il cuore digiuno riesce ugualmente a mantenere elevati livelli di glicogeno
cardiaco inibendo la glicolisi (38).
Quando e come usare
farmaci vasopressori una volta reso ottimale il precarico con opportuni carichi
idrici (fluid challenge) rappresenta il momento determinante per la protezione
miocardica negli stati di shock. Agenti potenziali includono dopamina, noradrenalina
, adrenalina e fenilefrina. Prima di passare in rassegna l’uso di tali farmaci
è fondamentale capire che nel corso di trattamento dello shock quello che
è desiderabile può rapidamente trasformarsi in effetto negativo ed inoltre
lo stesso farmaco agisce in modo diverso a seconda del fatto che l’organo
perfuso mantenga o meno la capacità di autoregolazione del flusso.
Per quanto attiene
al miocardio l’uso di noradrenalina è stato notevolmente rivalutato per la
capacità di ricuperare la funzione del ventricolo destro attraverso un aumento
della pressione sistolica e dei recettori alfa1 e beta1 di entrambi i ventricoli(50).
Dosi di noradrenalina
comprese tra 0,01 e 3 mcg/kg/min sono indicate nello shock in fase settica
(46) naturalmente con l’adeguata monitorizzazione emodinamica. Nella titolazione
farmacologica è utile avvalersi del monitoraggio delle resistenze periferiche.
Per quanto attiene
lo shock emorragico-ipovolemico la protezione miocardica è determinata non
solo dalla qualità e quantità delle infusioni di fluidi e sangue somministrati
ma dalla loro embricazione con farmaci che possano ridurre la necessità di
tali infusioni che hanno sempre effetti collaterali pesanti.
Particolare importanza
hanno le osservazioni sulla incapacità dell’albumina di ridurre la mortalità
e l’aumento di mortalità correlato con l’uso di sangue conservato da più tempo
(34).
Al momento attuale
non è presente in letteratura uno studio prospettico e controllato che abbia
esaminato la capacità preventiva, del by-pass aorto coronarico, nel ridurre
il rischio cardiaco prima della chirurgia d’elezione non cardiaca. Una serie
di studi retrospettivi hanno studiato il problema ed hanno dimostrato un effetto
protettivo del by-pass nel diminuire il rischio cardiaco dell’intervento susseguente.
Tra questi, lo studio più ampio, con 1600 pazienti, ha rivelato una differenza
di mortalità tra i malati che sono stati precedentemente sottoposti ad intervento
di by-pass (0.9%) e quelli che non lo sono stati (2.4%). Il limite di questo
studio è rappresentato dal fatto che non si è tenuto conto della mortalità
che deriva dall’intervento di by-pass stesso. Pertanto, quando si deve decidere
se rivascolarizzare o meno un paziente prima di sottoporlo ad intervento chirurgico
non d’elezione, bisogna valutare la probabilità a priori che il malato sia
affetto da CAD, il rischio che deriva dalla rivascolarizzazione e il rischio
dell’intervento di chirurgia non cardiaca.
In altri due studi,
di Fleisher et al (20) e di Mason et al (19), si è dimostrato che è meno rischioso
sottoporre i malati, con sospetta CAD, direttamente a chirurgia vascolare
che studiarli con coronarografia e successivamente trattarli con l’intervento
di by-pass. Nei malati che devono essere sottoposti ad interventi non cardiaci
e non vascolari questa relazione è ancora più forte visto che questo tipo
d’interventi hanno una probabilità a priori di eventi cardiaci inferiore a
quelli di chirurgia vascolare che pertanto hanno un rischio di mortalità incomprimibile
(21).
Il catetere di Swan-Ganz
è in grado di fornire importanti informazioni riguardo la terapia intensiva
a cui sottoporre i malati cardiologici. Il suo utilizzo, in realtà, deve tener
conto dei costi e dei rischi di complicanza che lui stesso determina. In letteratura
esistono numerosi studi che hanno valutato l’influenza del catetere sulla
mortalità e sui costi dei malati monitorizzati con tale sistema. Lo studio
più rappresentativo è quello di Connors et al (22) che ha dimostrato che l’utilizzo
del catetere in arteria polmonare aumenta sia il rischio di mortalità sia
la spesa sanitaria dei malati ai quali è stato inserito.
Questo articolo è stato
uno stimolo fondamentale grazie al quale le più importanti società scientifiche
coinvolte nel problema si sono incontrate ed hanno messo a punto dei progetti
per studiare in modo approfondito la questione. Un risultato è rappresentato
dalla formazione del gruppo "Pulmonary Artery Catheterization and Clinical
Outcome" (PACCO) che nel tempo ha messo a punto un progetto educativo per
il catetere in arteria polmonare (PACEP). L’obiettivo ultimo del PACEP è quello
di sviluppare una certificazione che attesti la reale capacità di ogni medico
che voglia utilizzare il catetere. Una delle principali cause, infatti, che
rende inutile se non pericolosa una simile metodica di monitoraggio consiste
nel fatto che molte volte i dati che il catetere fornisce non sono correttamente
interpretati.
L’obiettivo principale
del trattamento intraoperatorio del malato cardiopatico consiste nel ridurre
la domanda cardiaca di ossigeno aumentandone, contemporaneamente, l’offerta.
La domanda cardiaca
di ossigeno del ventricolo sinistro dipende dalla frequenza e contrattilità
cardiaca e dalle condizioni di carico del ventricolo.
La frequenza cardiaca
è il più importante parametro da regolare per diminuire il consumo di ossigeno.
Un aumento di tale parametro, infatti, non solo determina un aumentato consumo
di ossigeno ma riduce ulteriormente la perfusione delle regioni cardiache
distali alla stenosi coronarica perché diminuisce la durata della diastole.
Il precarico ed il
postcarico ventricolari influenzano il consumo di ossigeno alterando, rispettivamente,
la tensione parietale di fine sistole e di fine diastole.
Tra gli altri fattori
in grado di influenzare il rapporo domanda/offerta di ossigeno vi sono tutti
quei fattori coinvolti nella reologia ematica, l’ematocrito ed i circoli collaterali
coronarici.
Tutti gli approcci
farmacologici volti a diminuire l’incidenza di complicanze ischemiche perioperatorie,
di conseguenza, cercano di aumentare l’apporto di ossigeno cardiaco diminuendone
il consumo. Non esiste, al momento il farmaco ideale per il trattamento di
tutti i pazienti coronaropatici data la multifattorialità dell’eziologia dell’ischemia
coronarica. Ciononostante, nella maggior parte dei malati con CAD la prevenzione
dell’ischemia cardiaca produce un rapporto costo beneficio migliore rispetto
alla strategia del "wait and see".
Attualmente, l’unico
trattamento per il quale si è dimostrata l’efficacia nel ridurre la mortalità
perioperatoria da ischemia cardiaca è rappresentato dalla somministrazione
perioperatoria di Beta-bloccanti. A questa conclusione è arrivato lo studio
di Mangano et al, (25) che ha somministrato atenololo all’induzione dell’anestesia
fino al settimo giorno postoperatorio.
L’effetto protettivo
di questo farmaco è correlato alla sua capacità di diminuire sia la frequenza
che la contrattilità cardiaca. La diminuzione della frequenza cardiaca aumenta
la durata della diastole, il tempo di perfusione coronarico, il flusso ematico
subendocardico e riduce il consumo miocardico di ossigeno. L’atenololo, inoltre,
è in grado di annullare il furto coronarico poiché aumenta il tono vascolare
coronarico nelle regioni normalmente perfuse diminuendo la richiesta di ossigeno.
Nella maggior parte dei pazienti, la riduzione della frequenza cardiaca prodotta
dai beta-bloccanti è compensata da un aumento dello stroke volume mantenendo
inalterata la gittata cardiaca.
L’utilizzo di beta
bloccanti a breve emivita, come l’esmololo, potrebbe apportare tutti benefici
che derivano dalla possibilità di disporre di farmaci più maneggevoli. Si
potrebbe, per esempio, studiare preoperatoriamente la sensibilità del paziente
a tale classe di farmaci senza avere a lungo gli effetti del farmaco. Inoltre,
l’effetto più temuto di questa classe di farmaci, cioè l’eventuale incapacità
a rispondere ad una diminuzione di portata con una tachicardia, sarebbe molto
più limitato nel tempo.
Gli alfa2 agonisti
esercitano un effetto benefico sul sistema cardiocircolatorio. Questi prevengono
l’aumento dell’attività del simpatico e quindi attenuano le risposte ipertensive
e tachicardiche allo stimolo doloroso intra e postoperatorio. In realtà, il
grado di riduzione della frequenza cardiaca di questi farmaci non è sempre
prevedibile e la concomitante riduzione dell’attività simpatica può determinare
pericolose diminuzioni della pressione di perfusione coronarica. In uno studio
del McSPI - Europe Research Group, compiuto sul mivazerol, un alfa 2 agonista,
si sono avuti risultati favorevoli riguardo la capacità di questo farmaco
nel diminuire l’incidenza di tachicardia ed ischemia cardiaca (62). Un limite
di questo studio, tuttavia, è rappresentato dalla scarsa numerosità del campione
su cui è stato condotto. Per confermare tale successo, pertanto è necessario
compiere lo studio su un campione più ampio.
I nitrati rappresentano
da tempo farmaci di prima importanza nel trattamento dell’ischemia cardiaca.
La nitroglicerina riduce la domanda di ossigeno riducendo il precarico ventricolare
sinistro e la tensione parietale di fine diastole e aumenta la perfusione
collaterale coronarica dilatando le grandi arterie coronariche epicardiche
ed i vasi di conduzione collaterali. Nonostante questi benefici, la prevenzione
intraoperatoria dell’ischemia miocardica con nitrati ha dato risultati contrastanti
(63,64). Altrettanto si può dire per i farmaci calcio antagonisti. Nifedipina
e nicardipina, infatti, hanno una azione vasodilatatoria predominante sul
letto arterioso periferico e sono in grado, pertanto, di determinare un riflesso
compensatorio tachicardico che aumenterebbe il consumo di ossigeno miocardico
(66). Al contrario, il diltiazem fornisce un effetto protettivo sui pazienti
cardiopatici poiché diminuisce il consumo di ossigeno cardiaco riducendo la
frequenza cardiaca (65).
Si è visto, in studi
recenti, che brevi episodi di ischemia hanno la capacità di limitare l’estensione
del danno tissutale che deriva da un successivo e più importante insulto ischemico
(67). A questo processo, mediato dall’attivazione di canali per il potassio
ATP dipendenti, si è dato il nome di "Ischemic Preconditioning". Tale fenomeno
potrebbe essere simulato da alcuni farmaci quali gas ed oppioidi che, pertanto,
potrebbero garantire un "Anaesthetic Preconditioning" riducendo i danni della
ischemia (68).
Esiste un grosso dibattito
su quale debba essere la tecnica anestesiologica di scelta per il paziente
coronaropatico. Studi condotti su un gran numero di malati evidenziano che
i fattori che più influiscono sull’outcome sono le malattie concomitanti ed
il tipo di chirurgia (69). In sostanza sembra che non esista una tecnica anestesiologica
migliore delle altre in assoluto (69,70).
L’iniezione epidurale
o intratecale di anestetici locali od oppioidi può essere vantaggiosa per
i coronaropatici soprattutto perché attenua la risposta del sistema nervoso
autonomo allo stress chirurgico. Lo stesso risultato può essere ottenuto con
un trattamento che mantenga stabile l’emodinamica, per esempio con oppioidi
e vapori usati a MIC e MAC BAR. Sfortunatamente, la probabilità di eventi
ischemici miocardici non termina con la conclusione dell’intervento chirurgico
e dell’anestesia, al contrario, aumenta nel periodo postoperatorio e se non
trattati possono condurre fino all’infarto del miocardio. Le risposte proinfiammatorie
iniziano durante le manovre chirurgiche, continuano nel postoperatorio e contribuiscono
ad aumentare il rischio di ischemia. Il rilascio di citochine, l’aumentata
attività coagulante, la diminuita attività fibrinolitica, l’instabilità emodinamica,
l’aumento del tono simpatico ed uno scarso controllo del dolore postoperatorio
sono tutti fattori in grado di produrre ischemia cardiaca. Una buona analgesia
postoperatoria è in grado di contrastare l’effetto negativo di tutti i fenomeni
sopracitati. In uno studio di Mangano et al (73), infatti, si è visto che
la severità degli eventi ischemici postoperatori può essere notevolmente ridotta
da un’adeguata analgesia. Secondo Warltier et al (74), inoltre, nella prevenzione
degli eventi ischemici cardiaci, il trattamento del dolore postoperatorio
rivestirebbe un ruolo più importante rispetto alle strategie di trattamento
intraoperatorie.
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