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ANESTESIA & CARDIOPATIA ISCHEMICA

TROVATO SU: http://www.aaroi.it

Gestione perioperatoria del paziente cardiopatico


INDICE:

La valutazione preoperatoria

Bonizella Biagioli

La valutazione preoperatoria costituisce un dilemma diagnostico dal momento che, se è vero che di fronte ad un paziente ad alto rischio con una cardiopatia già diagnosticata nota sia nella sua estensione, nella severità e nella stabilizzazione anche da un punto di vista terapeutico è possibile predisporre una strategia perioperatoria corretta, bisogna essere altrettanto consapevoli che molti pazienti, specie quelli da sottoporre a chirurgia vascolare maggiore, arrivano all’intervento sconosciuti ed asintomatici, senza nessuna precedente o recente valutazione e possono essere portatori di estese compromissioni a livello dell’albero coronarico o dell’apparato cardiocircolatorio con possibilità elevata di eventi cardiaci sfavorevoli.

Se guardiamo alla letteratura che analizza i risultati dopo chirurgia maggiore non cardiaca sia in termini di mortalità che di morbilità vediamo che è riscontrata una notevole riduzione delle complicanze più importanti, cioè la morte e l’infarto perioperatorio, correlate con la cardiopatia di base, ma tutt’oggi ci si chiede se questa riduzione è attribuibile ad una migliorata valutazione preoperatoria od a un miglioramento delle strategie perioperatorie; comunque entrambe le risposte implicano un discorso sui costi nel primo caso relativi all’utilizzo di tests diagnostici e di tutte le procedure successive conseguenti alle risposte ai tests che hanno un loro costo ed una loro incidenza di complicanze, nel secondo caso relativi ad un certo tipo di monitoraggio, ricovero nelle unità intensive e semintensive. Forse, come sempre in medicina, sono tutti e due i fattori che intervengono e che contribuiscono ai risultati.

L’ASA è conosciuto da tutti gli anestesisti e tutti sanno utilizzarlo, però questo score è stato validato come sensibile predittore di morte e complicazioni maggiori, ma non è un sensibile predittore di complicanze cardiache; la classificazione del rischio deve fornire non solo numeri ma sufficienti informazioni per modificare in modo appropriato il piano di cura e per conoscere la riserva ventricolare del paziente ed il suo potenziale sviluppo di ischemia miocardica.

In effetti le procedure chirurgiche sono state estese sia a pazienti con età più avanzata, sia a pazienti molto più complessi con comorbidità notevoli; sono disponibili tecnologie non invasive di cui dobbiamo chiarire la reale predittività, la produzione scientifica riguardo a questo tema è numericamente molto rappresentata, ma l’evidenza scientifica è scarsa, perché sono lavori molto spesso osservazionali oppure retrospettivi, con end points non paragonabili, di spessore differente. Con questi presupposti, gli scopi di redigere delle linee guida, attraverso la valutazione della abilità prognostica dei tests e la stesura di direttive per assistere sia nella stratificazione del rischio che nella pianificazione della gestione durante tutto il percorso intra e postoperatorio, sono essenzialmente rivolti alla riduzione delle complicanze e della mortalità.

Non è possibile non tener conto di due importanti linee guida che sono state pubblicate in passato, la prima pubblicata su Circulation nel 1996 da parte della American Heart Association e e American College of Cardiology dove un Comitato Multidisciplinare con anestesisti, cardiologi, intensivisti e chirurghi, sulla base delle conoscenze acquisite, ha fornito indicazioni dettagliate di comportamenti per pazienti cardiopatici di differenti patologie; la seconda pubblicata su Annals of Internal Medicine l’anno dopo dall’American College of Physicians, dove si analizza la predittività dei vari tests utilizzati con un taglio più razionale di analisi qualitativa di risultati, attraverso un metodo di analisi che mette in relazione un dato parametro (ad esempio l’angina) con un dato evento (la morte) e la relazione che lega l’uno e l’altro è considerata come evidenza che può essere forte, consistente o debole.

È difficile stabilire l’entità del problema soprattutto in Italia. Se analizziamo lo studio prospettico, osservazionale, multicentrico presentato dal National Veterans Administration Surgical Risk Study su J.Am Coll Surg nel 1995 su una popolazione di 84.000 circa pazienti dove l’85% aveva uno o più fattori di rischio, solo uomini di età oltre 60 anni, la mortalità globale per tutti gli interventi chirurgici considerati, era del 3,1% e la morbilità del 17%, fra questa le complicanze cardiache "soltanto" del 4,5%. Se in questa vasta popolazione di pazienti vengono isolati quelli sottoposti a chirurgia vascolare maggiore questi hanno un rischio di IMA e morte molto più alto della media. Quindi la chirurgia vascolare costituisce di per se stessa un fattore indipendente di morte e complicanze principalmente per tre ordini di considerazioni:

1) i pazienti sottoposti a chirurgia vascolare hanno molti fattori di rischio in comune con il paziente cardiopatico, (iperlipidemia, ipertensione, diabete, etc.);

2) i pazienti da sottoporre a chirurgia vascolare sono quelli che, per le spesso frequenti limitazioni nella capacità funzionale, si presentano asintomatici o mascherati nell’usuale corredo sintomatologico per cardiopatia ischemica.

3) Gli interventi di chirurgia vascolare maggiore sono lunghi e complessi e possono presentare notevoli spostamenti di fluidi sia ematici che non, con stimoli trombogenici importanti e neuroormonali stressanti.

È importante quindi: 1) definire la natura e la gravità della cardiopatia e la compromissione dei vari apparati; 2) stratificare il rischio; 3) pianificare la strategia perioperatoria .

La valutazione preoperatoria può costituire la prima ed unica attenta valutazione cardiovascolare utile, non soltanto all’anestesista perché vuol porre le basi sicure per condurre un anestesia nel modo più corretto, ma anche e soprattutto al paziente non solo nell’immediato, ma anche e soprattutto nel lungo termine, in merito alla qualità di vita futura.

È importante stabilire il ruolo del consulente che deve contribuire alla definizione ed alla gravità della cardiopatia ed ottimizzare il compenso cardiocircolatorio di quel paziente, mentre il tipo di monitoraggio, il tipo di procedura anestesiologica, la programmazione verso la Terapia Intensiva o la Semintensiva è preciso compito dell’anestesista.

1 - Definizione della natura, gravità della cardiopatia e compromissione dei vari apparati.

Di fronte ad un paziente da sottoporre ad intervento chirurgico, l’anamnesi, l’analisi degli esami a disposizione ed eventualmente da richiedere consentono anche di individuare patologie concomitanti, fra cui il diabete che ha una alta associazione con l’ischemia silente e con l’infarto del miocardio conseguenti alla sua implicazione con il sistema nervoso autonomo; anche l’esame obiettivo, l’elettrocardiogramma, l’RX torace, l’ematochimica di base contribuiscono all’inquadramento, ma soprattutto è importante l’analisi della capacità funzionale, data la nota e spesso presente limitazione nei pazienti vasculopatici.

Attraverso un semplice questionario, domande semplici consentono di definire la riserva funzionale cardiovascolare: in particolare la capacità di salire almeno un piano di scale senza disturbi, caratterizza una riserva funzionale moderata (³4 MET; MET= equivalente metabolico) se il paziente è in grado si svolgere attività fisiche più impegnative addirittura attività sportive è presente una informazione sufficiente per suggerire che quel miocardio può essere stressato all’intervento chirurgico senza subire alterazioni importanti della funzione (fig.1).

2 - Stratificazione del rischio
valutazione clinica, valutazione strumentale.

a) Per la valutazione clinica si utilizza l’analisi dei fattori di rischio e l’analisi del tipo di intervento chirurgico. 

Dall’analisi della letteratura, sono stati individuati i fattori clinici che sono maggiormente correlati con le complicanze cardiache e distinti in maggiori, intermedi, minori.

I fattori di rischio maggiori sono tutte le sindromi coronariche instabili, dall’infarto del miocardio recente, all’angina instabile invalidante; insufficienza cardiaca scompensata, valvulopatia grave, aritmie gravi, soprattutto i blocchi AV di grado avanzato.

L’ American Heart Association definisce infarto miocardico acuto recente quello entro 30 giorni, oltre i 30 giorni la definizione è di infarto pregresso ed ha invitato a considerare a rischio aggiuntivo di reinfarto i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia non cardiaca nelle 8 settimane successive ad un episodio infartuale. In effetti il tempo trascorso fra l’episodio infartuale e l’intervento chirurgico permette di definire il rischio di reinfarto perioperatorio, per quanto gli studi siano stati effettuati in epoca precedente l’impiego dei trombolitici, della angioplastica primaria e dell’angioplastica più stent , procedure che hanno notevolmente ridotto la mortalità dell’infarto nei primi mesi con prognosi a distanza molto favorevole, per cui le casistiche a disposizione dovrebbero essere aggiornate: Taran (1972): se l’infarto precedente datava 3 mesi ,la complicanza era del 35%; se 3-6 mesi del 15%; oltre 6 mesi 5%. Rao (1983) la situazione è completamente cambiata in questo studio: a 3 mesi la complicanza è del 5% e nei mesi successivi diminuisce a valori insignificanti. Shah (1990): la diminuizione della incidenza del reinfarto è confermata nell’intervallo di tempo 3-6 mesi, ma la percentuale risale di nuovo se la distanza è oltre 6 mesi: in effetti in questo ultimo gruppo sono presenti un maggior numero di pazienti sottoposti a chirurgia vascolare maggiore (fig. 2).

Sempre in questo studio Shah distingue i pazienti cardiopatici ischemici in portatori di angina stabile da quelli con angina instabile: in questo ultimo gruppo le percentuali di IMA o morte sono >25%; ma anche di fronte all’angina stabile è importante distinguere l’angina a bassa soglia da quella che si manifesta per sforzi fisici più importanti (fig. 3).

I fattori di rischio intermedio sono: l’angina stabile o controllata dalla terapia, l’infarto miocardico pregresso, l’insufficienza cardiaca compensata, l’anamnesi dei pregressi episodi di scompenso, il diabete.

I fattori di rischio minore sono: l’età, anormalità dell’ECG comprensive di blocco di branca sinistro, ipertrofia ventricolare sinistra, anomalie della ripolarizzazione, ritmo non sinusale, ridotta capacità funzionale, pregresso ictus, ipertensione arteriosa; presi singolarmente questi fattori non costituiscono un fattore di rischio importante a meno che non siano correlati con ischemia potenziale.

Dall’analisi della letteratura abbiamo stratificato anche il tipo di intervento chirurgico in alto, intermedio e basso.

Gli interventi maggiori in urgenza specie nell’anziano, gli interventi di chirurgia aortica e vascolare arteriosa periferica e tutte le procedure chirurgiche prolungate associate ad importanti variazioni volemiche costituiscono interventi ad alto rischio.

Gli interventi di TEA carotidea, la chirurgia toracica addominale costituiscono il rischio intermedio come le procedure ortopediche e la chirurgia della prostata.

Tutte le chirurgie che oggi vengono fatte ambulatoriamente sono quelle cosiddette a basso rischio.

La presenza di questi fattori di rischio conduce all’identificazione della classe di rischio attraverso l’utilizzo di una scala a punteggio, Cardiac Risk Index di Goldman che l’ha ideato negli anni 70, modificato da Detsky e considerato dall’American College of Physicians un elemento di evidenza scientifica forte convalidato nel tempo: all’IMA recente, all’angina instabile o a bassa soglia, alla stenosi aortica critica, all’intervento in emergenza ed all’edema polmonare recente sono attribuiti i punteggi più elevati (fig. 4).

Si possono così distinguere le classi così ottenute in 3 gruppi: se il punteggio è da 0 a 15 classe I con probabilità di complicanze cardiache maggiori fino al 15%; se da 16 a 30 punti classe II con probabilità del 30%; se sopra a 30 punti classe III con probabilità > al 60% (fig. 5).

b) Valutazione strumentale.

Rispetto alla stratificazione utilizzando ASA abbiamo di nuovo ottenuto un numero di rischio, più correlato alle complicanze di organo ma non sufficiente all’inquadramento completo per la stratificazione; a questo scopo possono essere utili i tests non invasivi dei cui costi e dei rischi relativi bisogna tener conto dal momento che alla risposta del test è correlata la decisione successiva di sottoporre il paziente a coronarografia con un altro rischio ed un altro costo od a rivascolarizzazione miocardica con un altro rischio ed un altro costo con possibilità di conseguenze spiacevoli e di ritardi nei tempi dell’intervento chirurgico primitivo.

Infatti una forte raccomandazione delle linee guida citate afferma che l’uso dei tests dovrebbe essere limitato solamente ai casi in cui, i risultati comporteranno sicuramente la modifica delle strategie operative.

I tests non invasivi sono costituiti da: funzione ventricolare sinistra, attraverso l’utilizzo sia dei radioisotopi che dell’ecocardiografia e della cineangiocardiografia; la misura della frazione di eiezione non è un fattore predittivo di eventuale ischemia miocardica, infarto e morte, anche se è utile per inquadrare meglio il paziente in relazione alla patologia di base.

Molto utili i test ergometrici, perché uniscono lo scopo di analizzare la capacità funzionale fisica del soggetto, con quello di rilevare sia la presenza di ischemia che di aritmie, ma hanno limitazioni inerenti sia al tipo di soggetti (vasculopatici) che non possono eseguire il test da sforzo, sia all’analisi per presenza di alterazioni di base all’elettrocardiogramma(tipo blocco di branca sinistro). Sono chiaramente favoriti i tests da stress farmacologici, tallio dipiridamolo ed ecodobutamina, mentre l’ECG secondo Holter ha gli stessi limiti del test ergometrico per quanto riguarda l’analisi dell’ECG ed è necessaria comunque una stratificazione successiva più completa.

L’analisi della letteratura ha mostrato che questi tests da stress farmacologici hanno una specificità da 80 a 100% ed una sensibilità del 60-90% tali da avere un buon margine di sicurezza; tra l’altro l’ecostress alla dobutamina imita più da vicino lo stato iperdinamico del perioperatorio e quindi è considerata più favorita rispetto al tallio dipiridamolo, ma da un punto di vista predittivo i dati a disposizione non sono definitivi nell’individuare il test ottimale, perchè ci sono delle sovrapposizioni degli intervalli di confidenza al 95%. Quindi c’è una limitazione insita nei tests dovuta molto probabilmente al fatto che gli eventi intraoperatori hanno genesi multifattoriale, per cui sulle complicanze sia immediate che a distanza intervengono dei fattori che nessun test può rivelare in anticipo, per esempio: il sanguinamento, l’anemia, l’ipercoagulabilità, il dolore, lo stress chirurgico.

La conclusione è che questi tests non invasivi sono consigliati in chirurgia vascolare nei pazienti a rischio intermedio soprattutto se il test è negativo, mentre non sono consigliati nei pazienti a basso rischio. Nella chirurgia non vascolare non sono consigliati nei pazienti a rischio intermedio e basso con evidenze scientifiche forti soprattutto per quanto riguarda la chirurgia vascolare.

3 - Pianificazione della strategia operativa

Il 20% dei pazienti da sottoporre a chirurgia vascolare fanno parte della classe ad alto rischio. Di questi la metà sono pazienti che erano nella classe intermedia e che sono stati riclassificati nella classe ad alto rischio. È necessario chiedersi se per questa classe è indicata sempre la coronarografia ed in caso positivo se è sempre indicata la rivascolarizzazione sia chirurgica che non. Per quanto attiene alla prognosi a breve termine al momento attuale non sono disponibili indagini prospettiche; le indagini retrospettive mirate ad evidenziare se la prognosi a breve termine di pazienti sottoposti a chirurgia vascolare è positivamente influenzata dalla precedente correzione chirurgica della coronaropatia concludono che la riduzione del rischio di complicanze cardiache maggiori è tuttavia controbilanciata dal rischio proprio della procedura di bypass coronarico. Anche per quanto riguarda la prognosi a lungo termine abbiamo a disposizione indagini retrospettive. Eagle ha pubblicato nel 1997 su Circulation uno studio dove utilizzando il Coronary Artery Surgery Study Data Base ha analizzato i pazienti che si sono sottoposti ad intervento chirurgico nei 4 anni successivi ad un primitivo intervento di bypass aortocoronarico e li ha paragonati con pazienti similari dal punto di vista della coronaropatia di base, ma che sono stati trattati con terapia medica La differenza tra i due gruppi è statisticamente significativa in merito alle complicanze cardiache maggiori e questa differenza risulta ancora più evidente per i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia vascolare maggiore (fig.6). In effetti esiste una forte evidenza a favore della rivascolarizzazione per i pazienti che rientrano nella categoria dei cardiopatici in cui secondo le linee guida della ACC/AHA sarebbe indicato procedere a bypass coronarico indipendentemente dal problema contingente dell’intervento di chirurgia non cardiaca (pazienti con angina instabile refrattaria alla terapia medica massimale, stenosi del tronco comune, malattia trivasale e repressa funzione miocadica, malattia bivasale con stenosi critica prossimale della discendente anteriore e disfunzione ventricolare sinistra).

Il valore dell’angioplastica coronarica percutanea (PTCA) è molto meno ben stabilito e quindi l’evidenza corrente non supporta l’uso della PTCA al di là delle indicazioni stabilite per i pazienti non chirurgici, anche se questi dati meritano conferma da indagini prospettiche in quanto l’angioplastica è meno costosa e meno rischiosa rispetto all’intervento chirurgico.

Riassumendo e seguendo l’algoritmo presentato (fig. 7) vediamo che di fronte a necessità di chirurgia non cardiaca e il paziente è adulto e giovane, la chirurgia è a basso rischio, non sono presenti malattie sistemiche di nessun tipo, non è necessario procedere ad ulteriori indagini. Tutti gli altri pazienti vengono stratificati attraverso il Cardiac Risk Index di Goldman modificato Detsky e suddivisi in due gruppi principali, raggruppando intermedio ed alto insieme, perché sono equiparabili, quindi classe I (basso rischio) e classe II-III (alto rischio). Di fronte ad una emergenza non c’è tempo per stratificare ed indagare e l’ingresso in sala operatoria è immediato; è importante comunque analizzare tutto quello che è successo durante l’intervento e ristratificare a posteriori, perché l’infarto perioperatorio comporta una mortalità immediata e a distanza molto elevata del 30-40%.

La possibilità di complicanze maggiori non può tuttavia essere esclusa nei pazienti che hanno ottenuto un basso punteggio globale perché il Cardiac Risk Index è un buon indice predittivo positivo per l’alto rischio, ma non è altrettanto buono come predittivo negativo per il basso rischio; in effetti la classe I è costituita da un range variabile molto esteso di pazienti e pertanto questi pazienti devono essere ulteriormente indagati per la presenza degli "indici di basso rischio" indicati da Eagle e Vanzetto (fig. 8); questi autori sono andati a vedere quali erano tra i pazienti a basso rischio quelli che avevano fatto le complicanze e poi hanno messo in relazione, attraverso una analisi multivariata, queste con i fattori presenti preoperatoriamente: età >70 anni, anamnesi di angina, diabete mellito, onde Q patologiche, aritmie ventricolari in anamnesi, anamnesi di scompenso cardiaco, anamnesi di infarto, alterazione ST ed ipertensione con criteri ECG di ipertrofia ventricolare severa. Questi precedentemente sono stati considerati fattori di rischio intermedio- basso. Se non sono presenti nessuno di questi fattori od un solo fattore effettivamente la classe è a basso rischio, perché in questi l’incidenza delle complicanze è stata <3%, se invece sono presenti due o più fattori la classe è ristratificata in rischio intermedio, perché le complicanze in questi pazienti sono avvenute dal 3 al 15% dei casi. Nel basso rischio confermato la sala operatoria è accessibile senza necessità di ulteriori indagini. Mentre nel rischio intermedio se la chirurgia non è vascolare il comportamento è come nel basso rischio, se invece la chirurgia è vascolare è necessario utilizzare i tests non invasivi per distinguere i pazienti con risultato negativo e quindi conferma del basso rischio e quelli con risultato positivo che devono seguire il percorso del gruppo etichettato come alto rischio. L’evidenza è forte per quanto riguarda la chirurgia vascolare e debole per la chirurgia non vascolare (fig. 9).

Nella fig. 10 è rappresentato il potere predittivo del test non invasivo dello studio di Eagle: se i fattori di rischio sono 0 la percentuale di eventi cardiaci è molto bassa, se sono sopra a 2 è oltre il 50% per cui per questi pazienti è necessario predisporre sicuramente una coronarografia. L’utilità di questo test è soprattutto nei pazienti che hanno uno o due fattori di rischio, perché la differenza fra test positivo e test negativo è importante. Vanzetto ha studiato il valore additivo del test al tallio dipiridamolo: se non ci sono difetti reversibili, difetti fissi, indicativi di necrosi, la percentuale di eventi maggiori cardiaci, sia se i fattori di rischio sono da 2 a 4 oppure più di 5, è molto bassa; se invece i difetti sono reversibili e l’ischemia è inducibile, più alto il numero dei fattori presenti più alta l’incidenza delle complicanze (fig. 11).

Di fronte ai pazienti ad alto rischio (fig. 12) possono presentarsi tre differenti situazioni tipo: 1) i fattori non sono modificabili, come ad esempio l’età, per cui la situazione deve essere bene analizzata, concordare con il chirurgo ed informare il paziente per una modifica del piano chirurgico, da intervento demolitivo a palliativo o addirittura annullare l’intervento. 2) Presenza di scompenso congestizio, aritmie, valvulopatie od altri fattori che attraverso la consulenza del cardiologo possono essere ottimizzati con la terapia ai fini di ottenere un miglior controllo e stabilizzazione della performance cardiovascolare.

In questo caso è necessario rimandare l’intervento e ad ottimizzazione avvenuta rivalutare attraverso una nuova stratificazione. 3) Presenza di cardiopatia ischemica: la decisione sull’opportunità di procedere ad una rivascolarizzazione miocardica prima dell’intervento di chirurgia non cardiaca dipende soprattutto da quanto la correzione della coronaropatia modifica la prognosi a lungo termine, cioè per questi pazienti sono valide le indicazioni all’intervento di rivascolarizzazione date dalle linee guida indipendentemente dal problema contingente (fig. 13).

In caso contrario, cioè se non c’è indicazione è opportuno annullare o modificare l’intervento chirurgico come nella prima situazione. Se invece c’è indicazione si discute ancora sul timing ottimale dell’intervento di bypass rispetto a quello non cardiaco ed è consigliabile decidere in ogni singolo caso in base alla gravità della coronaropatia, all’urgenza dell’intervento programmato e dal consenso informato del paziente che deve essere sempre edotto dei rischi per concordare il percorso di cura.

PRESENTAZIONE DI CASI CLINICI

Per quanto riguarda la bibliografia per un eventuale approfondimento vedere le linee guida redatte dal Gruppo di Studio per l’Anestesia in Cardiochirurgia nel 1999 e pubblicate sulla rivista Minerva Anestesiol 2000;66:85-104.

 
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