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Università di Cagliari

Allergologia ed Immunologia Clinica

Prof.Paolo Emilio Manconi

gennaio 2000

 

IMMUNODEFICIENZE SECONDARIE

(con la collaborazione del dott.ssa Adriana Ibba)

Le immunodeficienze acquisite rappresentano la fetta maggiore di tutte le immunodeficienze. Esse si possono dividere in due grandi sottogruppi: l’immunodeficit può essere la complicanza di un processo morboso o la conseguenza di una terapia necessaria per combattere altre malattie, in tal caso si parla di "immunodeficienza iatrogena" (Fig.1).

La malnutrizione proteica e calorica, costituisce la causa di immunodeficienza più diffusa nel mondo. Essa è estremamente diffusa nei paesi in via di sviluppo dove rappresenta il principale fattore predisponente l’insorgenza di malattie infettive a loro volta causa di morte. La malnutrizione si accompagna infatti ad un'alterata risposta immunitaria sia umorale che cellulare verso gli agenti patogeni. Le infezioni riguardano soprattutto i polmoni, l'apparato gastroenterico e genito-urinario e possono essere di natura batterica, virale, protozoaria e fungina. Il timo dei soggetti denutriti si presenta atrofico e le aree paracorticali dei linfonodi ipoplasiche; una deplezione linfocitaria, con conseguente diminuzione dei linfociti circolanti, la si riscontra anche a livello splenico, e del sistema linfatico intestinale.

Anche la carenza di Zinco può indurre immunodeficienza. Tale metallo è infatti indispensabile per la sintesi e il funzionamento di diversi enzimi e ormoni, tra cui gli ormoni timici. I topi sottoposti a dieta totalmente priva di zinco, sviluppano atrofia timica che regredisce con la reintroduzione di tale metallo nella dieta.

L'immunodeficienza può essere secondaria anche a perdita di proteine come si verifica nel caso di gravi ustioni, nelle enteropatie proteino-disperdenti, nella sindrome nefrosica. In tali condizioni il deficit riguarda sia i linfociti T (meccanismo ancora non chiaro), sia il complemento che le immunoglobuline che vengono persi come trasudati insieme alle proteine plasmatiche.

Anche nella senescenza sono presenti alterazioni dell'immunità cellulo-mediata per una serie di fattori convergenti quali l'insufficiente produzione di ormoni timici, le carenze dietetiche le alterazioni del metabolismo generale.

Le malattie da virus e batteri sono spesso accompagnate da immunodeficienza riguardante soprattutto i linfociti T. La patogenesi è in parte sconosciuta e verosimilmente multifattoriale. I patogeni infettanti impegnano in maniera importante le risorse del sistema immunitario, lo stesso può venire inibito da alcune citochine prodotte nel corso della risposta immune, alcuni microrganismi producono direttamente sostanze dotate di azione immunosoppressiva. L'immunodeficienza secondaria al morbillo può durare oltre due mesi e causare riattivazione tubercolare. La lebbra lepromatosa causa anergia agli antigeni cutanei di richiamo e una difettosa risposta in vitro dei linfociti ai mitogeni. Lo stesso vale per l'infezione da Mycobacterium tubercolosis, di numerose specie fungine o di parassiti come il plasmodio della malaria.

La più comune immunodeficienza iatrogena è causata dal prolungato trattamento con corticosteroidi. A dosaggi elevati essi causano linfopenia per apoptosi dei T linfociti, a dosaggi più moderati interagiscono probabilmente con l'espressione dei geni delle citochine e dei loro recettori e con le capacità di ricircolo dei linfociti. Le infezioni più frequenti sono quelle da stafilococchi e batteri gram-, le micosi superficiali e le riattivazioni da toxoplasma ed herpes-virus.

Le radiazioni e i farmaci inibitori della proliferazione cellulare (alchilanti, antimetaboliti) riducono il numero dei linfociti T e la loro capacità di risposta ad antigeni e mitogeni, per contro l'attività fagocitaria e complementare sono ben conservate. I linfociti T di un individuo irradiato rappresentano una sorta di "dosimetro biologico": la valutazione della curva di caduta dei linfociti conseguente ad irradiazione consente di prevedere con notevole precisione le possibilità di sopravvivenza dell'individuo.

La Ciclosporina A è un antibiotico utilizzato in clinica come un immunosoppressore, agisce sui linfociti CD4+, impedendo in essi la sintesi e la liberazione di interleukina-2. Essa non agisce sulla maturazione delle cellule staminali con assenza di effetti sulla serie rossa e sui leucociti. Grazie alla sua selettività tale farmaco ha facilitato l'uso terapeutico dei trapianti.

La splenectomia induce immunosoppressione. Essa è spesso necessaria in seguito a traumi, per curare certe alterazioni ematologiche, o a seguito di infarto nei pazienti con anemia falciforme. I soggetti splenectomizzati sono più suscettibili alle infezioni da parte di batteri capsulati come lo Streptococcus pneumoniae.

L'immunodeficienza secondaria a malattie immuno-proliferative è una delle più gravi e complesse. Le cellule neoplastiche sostituiscono il tessuto linfoide, la proliferazione delle cellule tumorali e alcune molecole da esse prodotte (TGF-b) agiscono attraverso fenomeni di feedback sui linfociti circolanti. Nel Linfoma di Hodgkin prevale il difetto dei linfociti T con incapacità a sviluppare reazioni DTH in risposta all'inoculazione intradermica di antigeni ubiquitari "memoria", quali la Candida o il tossoide tetanico. Nel plasmocitoma e nella malattia di Waldenstrom prevale la diminuzione delle immunoglobuline "normali".

Il quadro clinico delle immunodeficienze acquisite differisce solo in piccola misura da quello delle immunodeficienze primitive. La sintomatologia è però spesso più sfumata ed insidiosa.

 

INFEZIONE DA HIV:

Con la collaborazione dei Dr.i Adriana Ibba, Emma Muggianu, Luisa Di Martino)

La Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (Acquired Immunodeficiency Syndrome o AIDS) è una condizione morbosa ad esito quasi sempre letale causata dall’infezione del virus HIV.

Si caratterizza per la deplezione progressiva dei linfociti CD4+, quale risultato di una complessa interazione tra la risposta immune dell’ospite e i processi di replicazione virale. La grave compromissione della risposta immunitaria cellulo-mediata è la causa delle manifestazioni cliniche caratterizzate da infezioni opportunistiche e rare forme di neoplasie maligne.

Etiologia

L’agente etiologico fu isolato per la prima volta nel 1983 presso l’Istituto Pasteur di Parigi dall’èquipe di Luc Montagneur. Si tratta di un retrovirus inizialmente denominato HTLV-III (Human T-Lymphotropic Virus) per l’analogia strutturale con questa categoria di virus. Ci si rese conto successivamente che il nuovo agente patogeno pur essendo dotato di norme tropismo per i linfociti T a differenza degli HTLV non possedeva capacità trasformante per le cellule. Gli fu assegnato il nome di HIV (Human Immunodeficiency Virus), esso fa parte della famiglia dei Retrovirus e della sottoclasse Lentivirus così denominati perché responsabili di infezioni con lungo tempo di incubazione, a carattere cronico e in grado di infettare diverse specie animali (Fig.2). L’HIV si divide in due sierotipi: HIV-1 e HIV-2. Essi differiscono dal punto di vista genetico (50% di analogia), patogeno (l’HIV-1 è più virulento) ed epidemiologico (l’HIV-2 è più diffuso in Africa Occidentale).

Caratteristiche Strutturali

Dal punto di vista strutturale l’HIV presenta una forma quasi sferica avente diamentro di 90-100 nm (Fig.3). E’ costituito in gran parte da proteine e lipidi derivanti dalle membrane delle cellule ospiti, in minima parte da carboidrati.

L’involucro esterno denominato envelope è costituito da un doppio strato fosfolipidico derivante dalla membrana delle cellule ospiti. Nell’ambito dello stesso si trovano proteine di superficie di origine virale: la gp120 (esterna protrude dalla superficie del virione con forma simile a bacchette di tamburo) e la gp41 che legandosi non covalentemente alla gp120 funge per questa da ancoraggio rigido ai lipidi. Entrambe le proteine derivano da un precursore polipeptidico comune la gp160 che viene successivamente scisso dalle proteasi virali. La superficie interna dell’envelope è rivestita da uno strato di proteine denominate p17.

All’interno dell’envelope si trova il nucleocaspside o core di forma troncoconica costituito da sub-unità proteiche denominate p24. Esso contiene due copie uguali di RNA a singola elica, proteine enzimatiche virali rappresentate dalle trascrittasi inversa, proteasi e integrasi, alcune proteine a funzione per ora sconosciuta denominte p6 e p9.

Il genoma virale (Fig.4) avente lunghezza di 9200 basi, è delimitato ad entrambe le estremità da sequenze ripetute e non codificanti denominate LTR (long terminal repeat). I geni strutturali sono tre: gag, pol ed env. Il gene gag (group specific antigen) codifica una proteina strutturale di grandi dimensioni successivamente clivata dalle proteasi virali in p17, p24 e p7. Il gene pol (polymerase) codifica due proteine enzimatiche la Trascrittasi Inversa (che funge da DNA polimerasi e da Rnasi), la Integrasi (responsabile dell’integrazione del genoma virale in quello della cellula ospite) e la proteasi. Il gene env codifica le proteine dell’envelope gp120 e gp41.

Una caratteristica del genoma dell’HIV è quella di possedere sequenze geniche con più "schemi di lettura aperti" sovrapposti. Questo fenomeno permette la codificazione di proteine derivanti da geni "accessori", che si dividono in "essenziali" che sembra abbiano un ruolo di regolatori della replicazione virale e sono i geni tat e rev, e "non essenziali" come i geni vif e nef che codificano per proteine a funzione non ancora del tutto conosciuta, probabilmente regolano negativamente l’espressione del genoma dell’HIV.

L’HIV presenta un’enorme polimorfirmo genetico imputabile all’incapacità di correzione degli errori funzionali commessi dalla trascrittasi inversa. Questo conferisce al virus un enorme capacità di adattamento di fronte a pressioni selettive (farmaci antivirali e risposta immunitaria). A causa di tale caratteristica l’insieme di virus HIV infettanti uno stesso individuo è definibile una "quasispecie".

Patogenesi dell’infezione

Il meccanismo d’infezione dell’HIV può essere assimilato a quello generale dei Retrovirus. La prima fase dell’infezione (Fig.5) consiste nel legame tra la particella virale e la membrana cellulare, attraverso l’interazione della gp120 e la molecola CD4 espressa prevalentemente sulla superficie dei linfociti T helper. Il legame tra le due proteine determina una modificazione allosterica della gp120, che porta allo scoperto la gp41: l’estremità idrofobica di questa si inserisce nella membrana cellulare determinandone la fusione con l’envelope.

La proteina CD4+ non rappresenta però l’unico recettore per l’HIV. (Fig.6) Numerosi studi hanno individuato come co-recettore alcune molecole di superficie (CCR5 e CXCR4) fisiologicamente deputate ad interagire con alcune chemochine denominate RANTES (Regulated-Activations Normal T Expressed Secreted ), MIP1-a, MIP1-b (Macrophage Inibitory Protein). Tali recettori sono presenti sia sui linfociti T che sui macrofagi, essi ineragiscono con la regione V3 della gp120. Individui portatori di delezioni omozigote per tali proteine recettoriali, non vengono infettati dall’HIV. I ligandi chemochinici sembrano inoltre svolgere un ruolo inibente la penetrazione del virus nelle cellule.

Oltre alle cellule T CD4 + e ai macrofagi possono essere infettate anche cellule CD4- (astrociti, cellule epiteliali, endoteliali, spermatozoi) che esprimono corecettori virali. Nei macrofagi il virus crea molti meno danni che nei linfociti e non dà budding sulla membrana cellulare, ma si localizza in vacuoli costituiti da frammenti del Golgi che fungerebbero da magazzino del virus. La liberazione dello stesso avviene in seguito all’intervento di fattori dell’infiammazione o di citochine.

Il capside (Fig.7) penetrato nella cellula viene svestito dai normali meccanismi proteolitici cellulari. Si ha quindi la conversione dell’RNA in DNA ad opera della transcriptasi inversa. L’informazione genetica virale, sotto forma di DNA a doppio filamento, può permanere nel citoplasma (provirus non integrato), ovvero migrare nel nucleo cellulare, dove un terzo enzima l’integrasi, fa in modo che il genoma del virus venga integrato in quello cellulare (provirus integrato). Il DNA virale si replica ogni qualvolta si ha la replicazione della cellula ospite. Il ciclo cellulare dell’HIV si completa però solo in alcune delle cellule infettate.

La fase di provirus può durare per un tempo variabile, anche molto lungo. Da questa situazione il virus esce quando la cellula ospite viene attivata dall’antigene verso cui ha specificità. La RNA polimerasi cellulare trascrive il DNA virale in RNA. Una parte di tale materiale genetico costituirà dei nuovi virus, l’altra parte funge da mRNA che sfruttando i meccanismi protido-sintetici della cellula, costituirà le proteine strutturali ed enzimatiche del nuovo virus. Le proteine tat, rev e nef, partecipano all’accelerazione della replicazione. Le diverse proteine man mano che vengono prodotte, migrano verso la periferia della cellula e si fissano alla membrana cellulare. Esse aggregandosi, danno luogo ad una formazione sferica che protrude dalla superficie della cellula. Man mano che il virione prende forma, viene raggiunto dai filamenti di RNA che penetrano al suo interno. Il virione neo formato resta avvolto in un frammento della membrana cellulare (budding) che costituisce l’envelope, e si stacca per gemmazione. La fuoriuscita del virus può avvenire anche per lisi cellulare in seguito a modificazioni della permeabilità della membrana indotte dall’inserzione della gp41.

L’effetto citopatico (Fig.8) derivante della moltiplicazione in vitro dell’HIV è la formazione dei sincizi che appaiono costituiti dalla fusione di cellule sane esprimenti CD4 in membrana con cellule infette esprimenti gp120. I sincizi vanno incontro in breve periodo (1-3 giorni) a necrosi, sia per problemi di approvvigionamento energetico, sia per la tossicità di alcuni costituenti virali. E’ stato dimostrato in vitro un altro meccanismo di morte cellulare, l’apoptosi (Fig.9) (morte cellulare programmata), che gioca un ruolo di grande importanza nella distruzione dei CD4+ ad opera dell’HIV.

Genesi dell’immunodeficienza

Alla luce di recenti studi appare troppo semplicistico attribuire la distruzione del sistema immune al solo effetto citopatico del virus (Fig.10). Il numero dei linfociti CD4+ contenenti il virus libero o integrato è troppo scarso per giustificare questo meccanismo patogenetico.

La morte delle singole cellule infettate può essere determinata da diversi fattori:

 

La morte cellulare può essere determinata inoltre dalla gp41che per errore provoca buchi nella membrana citoplasmatica della cellula infettata o al momento della liberazione delle particelle virali. E’ estremamente difficile osservare in vivo la formazione dei sincizi citopatici.

Esistono anche fattori di natura immunologica che favoriscono la distruzione dei linfociti T CD4+. Un’ipotesi riguarda la possibilità che proteine del virus, come la gp120, si liberino dalle cellule e vadano a legarsi ad altri linfociti distruggendoli o inducendo la formazione di anticorpi o di cloni di linfociti citotossici. Si verrebbe così a creare una sorta di "guerra civile" tra linfociti.

La gp120 potrebbe anche fungere da superantigene.

La distruzione di questi neo antigeni potrebbe venire effettuata anche da meccanismi ADCC.

L’immunodeficienza progressiva è spiegata dal ruolo centrale svolto dai linfociti CD4+ nel sistema immunitario. Queste cellule dirigono la complessa rete dei meccanismi di riconoscimento e di effezione delle risposte immunitarie. La diminuzione primaria di tali cellule porta ad una diminuzione della produzione di citochine e conseguentemente delle altre sottopopolazioni del sistema immune.

E’ stato dimostrato che nell’infezione da HIV si ha uno sbilanciamento dei pattern citochinici prodotti dai linfociti Th1 e Th2. Con la progressione dell’infezione si determinerebbe una diminuzione di IL-2 e IL-4 prodotte dai linfociti Th1 (regolatori dell’immunità cellulo-mediata) a favore di IL-5, IL-6 prodotte dai linfociti Th2 (regolatori dell’immunita umorale) ma meno efficaci nell’attività antiretrovirale.

La localizzazione del virus nei linfonodi durante la fase di latenza clinica scatena una risposta immunitaria alla quale partecipano i linfociti B, T e i macrofagi. Si determina così uno stato di continua attivazione cellulare, che potrebbe indurre l’esaurimento funzionale delle componenti effettrici del sistema immune.

Grande importanza è stata data in questi ultimi anni alla cinetica dei CD4, (Fig.11) recenti osservazioni hanno dimostrato che le cellule come i virus sono in rapido turn-over. La vita media delle cellule infettate è di circa due giorni e il ciclo di replicazione virale è leggermente inferiore. Si calcola che si abbia una produzione di 2 miliardi di CD4 al giorno e di circa 1 miliardo di virioni al giorno. Il virus determina così un danno definito di "accumulo" in questa fase di latenza solo apparente. L’aumento dei CD4 che si determina immediatamente dopo l’inizio del trattamento antiretrovirale indica che il sistema immune è in grado di ricostituire i CD4 distrutti, e che il deterioramento del sistema immune che si osserva negli anni di infezione, è causato da un’eccessiva distruzione dei CD4 e non da un deficit di produzione timica.

Risposte immunitarie all’HIV

Nei confronti di tutti i determinanti antigenici del virus il sistema immune elabora una risposta quantitativamente rilevante, che però è priva di un efficace ruolo difensivo. La risposta è costituita sia da anticorpi che da cloni di T linfociti. Tale paradosso per il momento non ha una risposta univoca. Possono essere formulate delle ipotesi:

Effetto protettivo dei CD8

Alcune citochine agiscono sui linfociti CD8 rendendoli capaci di inibire la replicazione dell’HIV nei linfociti CD4, senza ucciderli. Questa attività appare mediata da un fattore solubile diistinto da tutte le citochine conosciute finora, denominato Caf (CD8 antiviral factor). L’IL-2 si è dimostrata in vitro un potente induttore del Caf al contrario l’IL-10 avrebbe un effetto soppressivo.

Epidemiologia

I dati mondiali sulla prevalenza dell'infezione fino al 1998, ci indicano la sua massima diffusione nei paesi in via di sviluppo. Al mondo sono stimabili oltre 30 milioni di casi il 95% dei quali in Africa e Asia. L'infezione riguarda inoltre il 43% delle donne e oltre un milione di bambini.

L'incidenza dei casi di AIDS in Europa ha raggiunto il culmine nel 1994, il numero cumulativo totale a partire da 1982, è di oltre 200000 casi. La progressiva riduzione cui si è andati incontro dopo in 1994 è da imputare all'evento di nuove terapie. Le nazioni europee maggiormente colpite sono l'Italia, la Francia e la Spagna.

In Italia i primi casi di AIDS vennero diagnosticati nel 1982, si trattava di casi sporadici riscontrati in omosessuali. L'inizio della vera e propria epidemia si è avuto nel 1984 con la diffusione dell'infezione tra i tossicodipendenti. A partire da allora la curva dei casi di AIDS è andata aumentando fino al 1995, diventando la prima causa di morte tra i giovani adulti di sesso maschile (età media di diagnosi: 33-35 anni). Dall'inizio dell'epidemia sono stati notificati circa 40000 casi. Le regioni italiane più colpite sono quelle del nord con eccezione della Sardegna che sta al quinto posto.

Come è noto l'infezione da HIV si trasmette attraverso i rapporti sessuali non protetti, l'esposizione a sangue (tossicodipendenti che si scambiano la siringa, politrasfusi, operatori sanitari), da madre a figlio durante la gravidanza, il parto o l'allattamento. Il rischio di contagio attraverso i rapporti sessuali è aumentato dalla concomitante presenza di lesioni a carico dei genitali e da un insieme di circostanze cliniche e comportamentali. La donna è più a rischio rispetto al maschio. Il rischio di contagio materno-fetale si riduce se viene eseguito il parto cesareo, l'allattamento artificiale e la profilassi farmacologica con la zidovudina a partire dalla 15ma settimana di gestazione.

In Africa la diffusione dell'epidemia si è avuta attraverso i rapporti sessuali e la trasmissione verticale, in Italia la causa maggiore è stata la tossicodipendenza ma negli ultimi anni è aumentato il contagio per via eterosessuale: le più colpite sono le donne partner di tossicodipendenti.

Diagnosi di infezione

La diagnosi d'infezione da HIV si esegue attraverso metodi diretti e indiretti.

La prima indagine consiste nell'eseguire al paziente con sospetta infezione, un'attenta anamnesi. L'obiettivo è la ricerca di validi motivi di rischio e stabilire qual è il tempo intercorso tra questo e l'esecuzione dell'indagine diagnostica.

I test indiretti consistono nella ricerca nel siero degli anticorpi specifici contro gli antigeni virali. Il metodo di screening più comunemente utilizzato è l'ELISA (enzyme linked immunosorbent assay). La positività al test ELISA deve essere confermata dall'esecuzione sullo stesso campione di siero del test Western blot, attraverso il quale, si evidenzia la specificità degli anticorpi per i rispettivi costituenti virali. La ricerca degli anticorpi può dar luogo a falsi positivi, ma in tal caso il test di conferma è solitamente negativo. In caso di risultato positivo per ELISA e indeterminato per Western blot occorre ritestare il paziente dopo alcune settimane. I falsi negativi possono essere la conseguenza della mancata produzione di anticorpi se è passato poco tempo tra il momento dell'infezione e l'esecuzione del test: "periodo finestra".

In tale circostanza se ci troviamo davanti ad un forte sospetto d'infezione si può ricorrere alla ricerca diretta nel plasma del DNA provirale mediante metodica PCR (polimerase chain reaction). Il test deve essere eseguito non prima di 8-10 giorni dalla data della sospetta esposizione. Tale test è di comune utilizzo nei neonati nati da madre HIV-positive.

Decorso dell’infezione

Il decorso clinico può essere schematizzato in tre fasi principali:

 

  1. Infezione primaria o acuta
  2. Fase di latenza clinica o asintomatica
  3. Fase clinica conclamata nota come AIDS conclamata.

 

L’infezione primaria non è sempre riscontrabile o diagnosticabile come tale, si sviluppa entro 3-6 settimane ed è molto simile alla sindrome influenzale o alla mononucleosi infettiva. In questa fase si osservano l’abbassamento del numero dei linfociti T CD4+ nel sangue periferico e alti livelli di HIV-RNA plasmatici. Nell’arco di circa nove settimane tali parametri rientrano nella norma perché il sistema immunitario organizza una risposta di tipo umorale e cellulo-mediata, in grado di ridurre drasticamente la replicazione virale, senza eradicarla. Questo periodo è definito anche "periodo finestra": i normali test di screening per la ricerca degli anticorpi specifici (ELISA) non sono in grado di rivelare l’infezione.

A questa prima fase segue quella della latenza clinica. Questa ha una durata variabile (7-10 anni) ed è caratterizzata dall’assenza di sintomi correlabili all’infezione. Questa situazione di calma apparente nasconde un importante equilibrio dinamico tra il virus (produzione di 1010 nuovi virioni/die) e il sistema immunitario (1012 linfociti distrutti/die) con conseguente progressivo deterioramento delle difese immunitarie che porta alla terza fase definita come sintomatica. Alla diminuzione dei linfociti CD4+ segue il difetto funzionale dei linfociti CD8+, dei linfociti B e dei macrofagi. Le più gravi infezioni opportunistiche si manifestano quando il livello dei CD4+ scende oltre i 200/mmc.

 

Classificazione dell'infezione

L'infezione da HIV è stata classificata in vari stadi secondo alcuni criteri clinici ed immunologici. L'ultima classificazione è stata fatta dai Centers for Disease Control di Atlanta nel 1993. Questa classificazione suddivide i pazienti sulla base di condizioni cliniche associate con l'infezione da HIV e del numero dei CD4/mmc. Sulla base delle patologie HIV-relate l'infezione si suddivide in gruppo A (infezione acuta, infezione asintomatica o linfoadenopatia generalizzata persistente), gruppo B (pazienti sintomatici non aventi patologie definenti lo stato di AIDS) e gruppo C (patologie definenti lo stato di AIDS conclamata). Sulla base del grado di immunodeficit i pazienti possono inoltre appartenere al gruppo 1 (CD4/mmc>500), al gruppo 2 (200/499 CD4/mmc) e al gruppo 3 (<200 CD4/mmc). Un paziente è in AIDS quando presenta una patologia del gruppo C indipendentemente dal numero dei CD4.

Lo stadio d'infezione viene quindi indicato dall'insieme della lettera con il numero.

Le patologie rientranti nel gruppo B sono rappresentate dalla candidosi orofaringea, sintomi costituzionali (febbre e/o diarrea persistenti per oltre un mese), leucoplachia orale villosa, herpes zooster multidermatomerico o ricorrente, porpora trombocitopenica idiopatica, angiomatosi bacillare, listeriosi, nocardiosi, neuropatia periferica, candidosi vulvovaginale (persistente, frequente o non responsiva a terapia), displasia e carcinoma non invasivo della cervice uterina, malattia infiammatoria pelvica.

Le patologie definenti lo stato di AIDS (Fig.12), possono essere di natura tumorale, infettiva o costituzionale. Tra le più comuni ricordiamo la polmonite da Pneumocystis carinii (polmonite interstiziale ad evoluzione rapida e fatale), la candidosi esofagea, la tubercolosi (polmonare ed extrapolmonare), le micobatteriosi atipiche sistemiche (soprattutto da Micobatterium avium), il sarcoma di Kaposi, la Wasting Syndrome (rapido dimagramento associato a febbre e/o diarrea da oltre un mese), le polmoniti a carattere ricorrente, la retinite da Citomegalovirus (con perdita della vista).

Terapia

Lo scopo della terapia è di ridurre al di sotto del limite valutabile il livello di HIV-RNA plasmatico il quale rappresenta un importante indice di progressione di malattia.

Il trattamento viene proposto a tutti i pazienti sintomatici o che abbiano livelli di CD4+<500/mmc o livelli di viremia plasmatica >5-10000 copie di HIV-RNA/ml.

La terapia antiretrovirale si avvale di un'associazione di più farmaci che agiscono contemporaneamente su differenti enzimi virali (Trascrittasi Inversa e Proteasi). Gli inibitori della Trascrittasi Inversa possono essere o meno degli analoghi nucleosidici. Essi bloccano la sintesi dell'acido nucleico virale. Gli inibitori delle Proteasi costituiscono una nuova classe di farmaci che bloccano la maturazione di nuovi virioni provenienti anche da cellule cronicamente infette. Ne derivano virioni immaturi privi di capacità infettante.