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INFEZIONI A RISCHIO MALFORMATIVO FETALE: VARICELLA, MORBILLO E INFEZIONE DA PARVOVIRUS B19 |
F.A.L. STRIGINI, A. CARMIGNANI, A.R. GENAZZANI
Dipartimento di Medicina della Procreazione e dell'Età Evolutiva,
Divisione di Ginecologia ed Ostetricia, Università di Pisa
Varicella
La varicella, cioè la primoinfezione con il virus della varicella-zoster, è piuttosto rara in gravidanza (circa 0,05%), poiché, data l’alta infettività del virus, la maggior parte delle donne contraggono la malattia prima di raggiungere l’età riproduttiva. Tuttavia, l’incidenza della varicella nell’età adulta sembra essere in aumento nei paesi industrializzati, probabilmente a causa delle migliorate condizioni di vita che portano ad una minor esposizione al contagio durante l’infanzia; anche l’immigrazione in età adulta da paesi subtropicali o tropicali, in cui il contagio durante l’infanzia è più raro, può contribuire a tale variazione (1).
La varicella in gravidanza è gravata da una elevata incidenza di complicazioni materne, principalmente polmonite, che in alcune casistiche colpisce fino ad un terzo delle donne (2) e può essere causa di morte; tuttavia, recenti valutazioni fanno ritenere che questi rischi siano stati molto sovrastimati perché i casi non complicati tendono ad essere segnalati più raramente (3). Se contratta nelle settimane intorno al parto, il virus può causare varicella neonatale, che è gravata da una mortalità fino al 30% dei casi. In particolare, il rischio di infezione, di sintomatologia clinica e di malattia grave è particolarmente elevato (rispettivamente 67%, 60% e 10%) se l’esantema compare nei 7 giorni precedenti e successivi al parto, mentre decresce progressivamente allontanandosi da questo periodo (4). Il rischio di sindrome da varicella congenita, legata all’infezione contratta nel I o II trimestre (ed in particolare tra la 10a e la 20a settimana), è invece relativamente basso (1-3%) (5-7). La sindrome può comprendere microftalmia, cataratta, corioretinite, sindrome di Horner, microcefalia, atrofia corticale, encefalite, ritardo di crescita intrauterina, ipoplasia degli arti, dita rudimentarie, atrofia muscolare, disfunzione degli sfinteri e cicatrici cutanee. Da ultimo, i neonati di madri che hanno contratto la varicella in gravidanza possono andare incontro a zoster durante l’infanzia. Al contrario, l’herpes zoster in gravidanza non sembra comportare alcun rischio di varicella neonatale, sindrome da varicella congenita o zoster in età pediatrica (4, 6).
Benché il quadro clinico della varicella sia piuttosto caratteristico, una piccola percentuale delle persone con anamnesi positiva risultano non immuni ed una buona percentuale dei casi con anamnesi negativa risultano immuni, sottolineando la necessità di una conferma sierologica o virologica per una diagnosi di certezza sia dello stato immunitario che dell’infezione (8). Una volta accertata l’infezione materna, sorge il problema della diagnosi di infezione fetale, particolarmente importante poiché, dato il suo basso rischio, il ricorso indiscriminato all’interruzione di gravidanza appare particolarmente inappropriato (Fig. 1). Sono stati riportati casi di diagnosi ecografica di anomalie, soprattutto a carico degli arti, ma anche di coinvolgimento viscerale (iperecogenicità polmonare, epatica, ecc.), conseguenti all’infezione fetale; tuttavia, la maggior parte delle anomalie che configurano la sindrome non appaiono ecograficamente dimostrabili. Anche se la ricerca delle IgM sul sangue fetale ottenuto tramite funicolocentesi può risultare positiva, il valore diagnostico di tale test è basso, come supportato dall’osservazione che in circa la metà dei neonati con sindrome da varicella congenita le IgM specifiche sono assenti. Un recente studio di Mouly et al. (7) suggerisce l’inutilità della cordocentesi, proponendo l’amniocentesi (da effettuarsi dopo completa guarigione delle lesioni cutanee) per la ricerca del genoma virale tramite PCR come la principale tecnica di diagnosi prenatale. In questo studio su 107 donne che avevano contratto la varicella prima della 24a settimana, non sono stati riportati casi né di sindrome da varicella congenita né di zoster nell’infanzia nelle 98 gravidanze (92%) in cui la ricerca del virus sul liquido amniotico tramite PCR era negativa: la metodica potrebbe quindi consentire di rassicurare la maggior parte delle pazienti. Al contrario, su 9 casi di positività, si sono avute 3 sindromi da varicella congenita e 3 di zoster neonatale (un neonato aveva presentato entrambe le patologie). Anche se la patologia fetale sembra quindi concentrarsi fra i casi con PCR positiva sul liquido amniotico, questa non è sinonimo di prognosi sfavorevole e gli Autori suggeriscono un monitoraggio ecografico seriato per evidenziare possibili lesioni correlate all’infezione; tuttavia, in uno dei 3 casi di sindrome da varicella congenita, l’ecografia non era stata in grado di sospettarla. D’altra parte, altri Autori (5), confrontando il rischio di perdita fetale in seguito alle metodiche di diagnosi invasiva con il basso rischio di sindrome da varicella congenita, ritengono più appropriato consigliare il solo monitoraggio ecografico; anche l’osservazione che l’infezione fetale diagnosticata con la PCR non è associata alla sindrome clinica nella maggior parte dei casi può supportare la scelta di un monitoraggio soltanto ecografico.
Le possibili misure di prevenzione e/o terapia della varicella in gravidanza sono attualmente discusse (Fig. 1). L’immunizzazione passiva con immunoglobuline anti varicella-zoster successiva all’esposizione non sembra prevenire la varicella materna (6,7). Tuttavia, nessun caso di sindrome da varicella congenita o di zoster in età pediatrica è stato riportato in 97 pazienti trattate nello studio di Enders et al. (6) né nelle 34 trattate nello studio di Mouly et al. (7). E' quindi indicato utilizzare l’immunizzazione passiva nelle donne non immuni esposte al contagio in gravidanza, allo scopo di attenuare la gravità della malattia materna e di ridurre il rischio di sindrome da varicella congenita. Dato l’alto costo delle immunoglobuline specifiche, sarebbe vantaggioso somministrarle soltanto alle donne esposte al contagio di cui sia stata sierologicamente dimostrata la suscettibilità all’infezione; tuttavia, le immunoglobuline sono efficaci soltanto se somministrate entro 96 ore dall’esposizione e non è sempre possibile ottenere i risultati di laboratorio in tempo utile (9). E' stata anche valutata l’opportunità di uno screening in gravidanza, analogamente a quanto viene correntemente proposto per la rosolia e la toxoplasmosi, concludendo che tale misura può essere utile soltanto se inserita in un programma di vaccinazione per gli adulti (3). La somministrazione di immunoglobuline anti varicella-zoster ai neonati di madri con varicella peripartale non sembra ridurre il rischio di infezione, ma viene utilizzata nell’ipotesi di ridurre la gravità della malattia (4). L’aciclovir è stato utilizzato soprattutto per trattare la polmonite materna, ma i dati su un possibile effetto protettivo sul feto sono troppo scarsi per trarne conclusioni (2,10). L’entrata in commercio di un vaccino vivo attenuato per la varicella ha portato a discutere l’opportunità di offrire tale vaccinazioni alle donne non immuni in età fertile (8). Gli effetti dei programmi di vaccinazione in età pediatrica e/o adulta sui rischi da varicella in gravidanza non sono tuttavia prevedibili con certezza (3). Il rischio dell’esposizione al virus vaccinico in gravidanza non è noto.
Infezione da Parvovirus B19
Il parvovirus B19 è stato scoperto nel 1975, e nel 1984 è stato identificato come l’agente causale della quinta malattia o eritema infettivo. La sintomatologia prevalente della quinta malattia è nel bambino l’esantema, mentre nell’adulto può essere rappresentata da artralgie; la febbre è in genere bassa e la malattia può anche decorrere asintomatica. Numerose segnalazioni hanno consentito di stabilire il nesso fra infezione da parvovirus B19 e idrope e/o morte fetale; la ricerca retrospettiva del genoma virale ha anche dimostrato che una buona percentuale dei casi letali di idrope fetale, precedentemente classificato come idiopatico, erano stati in realtà causati dal parvovirus B19 (11). L’idrope e la morte fetale sono verosimilmente legati alla depressione dell’eritropoiesi causata dal virus che, nel periodo della vita fetale in cui l’aumento della massa eritrocitaria è più rapido, può determinare anemia grave con conseguente scompenso cardiaco iperdinamico, analogamente a quanto si osserva nei bambini o negli adulti con emoglobinopatie. Tuttavia, anche un coinvolgimento diretto del miocardio è stato implicato, se pure più raramente, nel determinismo dell’idrope. Benché la prognosi dell’idrope fetale sia spesso infausta, indipendentemente dalla sua etiologia, la risoluzione spontanea del quadro clinico è possibile, con successiva normale evoluzione della gravidanza. Sono stati anche descritti casi isolati di malformazioni congenite in neonati di madri che avevano contratto l’infezione da parvovirus B19 durante la gravidanza, ma la loro eterogeneità e la mancata conferma di un eccesso di malformazioni congenite in serie prospettiche fa ritenere che si tratti di eventi coincidenti, senza nesso di causalità.
Dal momento che la quinta malattia può essere asintomatica e che la sintomatologia è comunque poco caratteristica, la diagnosi di infezione in gravidanza viene spesso posta in seguito alla morte fetale o al riscontro di idrope. Ciò può portare ad una sovrastima del rischio fetale, che può invece essere valutato soltanto con studi prospettici in cui i test diagnostici vengano richiesti sulla base della sintomatologia clinica o dell’anamnesi di un contatto con individui affetti (12-14). Il più ampio di tali studi, pubblicato da Miller et al. nel 1998 (13), che fa seguito ad uno simile già pubblicato nel 1990 (12), riguarda 261 gravidanze, confrontate con un gruppo di controllo rappresentato da gravidanze con infezione materna da varicella. Tali studi concludono che il rischio di perdita fetale in seguito all’infezione materna con parvovirus B19 è limitato alle prime 20 settimane di gravidanza ed eccede quello dei controlli del 9%; fra i feti sopravvissuti non erano state riscontrate al parto anomalie attribuibili all’infezione e nessun esito a distanza era riscontrabile a 7-10 anni (compresi 2 bambini che avevano presentato idrope, a cui va aggiunto un terzo della casistica pubblicata nel 1990). Il rischio di perdita fetale riportato in altri studi è anche più basso (14,15).
Da quanto esposto risulta evidente che l’infezione da parvovirus B19 deve essere presa in considerazione nella diagnosi differenziale dell’idrope fetale. Poiché l’idrope fetale può svilupparsi a distanza di 2-17 settimane dalla fase di viremia materna, la ricerca sia del virus che delle IgM specifiche sul sangue materno possono risultare già negative; anche le IgM specifiche sul sangue fetale possono essere negative, mentre in genere risulta positiva la ricerca del genoma virale tramite PCR sul liquido amniotico, sul sangue fetale, sul liquido ascitico o, nel caso della morte del feto, sui diversi tessuti. La tecnica più sensibile appare la nested PCR, ma sono state anche proposte metodiche più rapide e meno indaginose (16). Ai fini pratici, appare comunque soprattutto importante la diagnosi di anemia fetale, che è immediatamente disponibile alla funicolocentesi e suggerisce l’opportunità della trasfusione intrauterina anche prima della dimostrazione dell’agente causale. La necessità della trasfusione è stata discussa dopo che sono stati riportati casi di risoluzione spontanea dell’idrope fetale, che potrebbero far ritenere eccessivo il ricorso a terapie invasive. Tuttavia, Fairley et al. (17) hanno riportato una riduzione significativa del rischio di morte fetale, tenendo anche conto della gravità dell’idrope, nei casi che avevano ricevuto una o più trasfusioni in utero (morte fetale in 3 su 12) rispetto a quelli che non erano stati trattati (morte fetale in 13 su 26).
Diverso è il problema che deve essere affrontato quando il sospetto di infezione da parvovirus B19 non deriva dall’osservazione dell’idrope fetale, ma dalla sintomatologia materna o dall’anamnesi di un contatto (Fig. 2). Diversi studi hanno evidenziato che almeno il 50% delle donne gravide risultano già immunizzate, di modo che la sierologia materna può consentire di rassicurarle (15,18,19). Anche fra le donne suscettibili, soltanto una piccola percentuale risultano infettate dopo il contatto (7%-17%) (15,18). Il rischio di infezione del feto, valutato in base alla positività delle IgG specifiche a 1 anno di vita, sembra aumentare con l’età gestazionale, superando il 50% dopo la 20a settimana; tuttavia, nessun caso di perdita fetale attribuibile all’infezione da parvovirus B19 è stato riportato per infezioni contratte dopo la 20a settimana (13). Anche prima della 20a settimana, la percentuale di morte e/o idrope fetale sembra senz’altro inferiore a quella delle infezioni fetali (13). Se l’infezione materna è diagnosticata in questo periodo, la maggior parte degli Autori raccomanda l’esecuzione di ecografie seriate ogni settimana per almeno 8-12 settimane, al fine di evidenziare precocemente la possibile comparsa di ascite fetale: il suo riconoscimento precoce, senza attendere le scadenze delle ecografie di routine, potrebbe consentire di valutarne l’evoluzione e di intervenire tempestivamente con trasfusioni intrauterine se queste si rendono necessarie (15,20). Una elevazione di marcatori sierici quali l’a-fetoproteina o la gonadotropina corionica sembra correlata ad una prognosi sfavorevole, ma la loro accuratezza diagnostica non sembra sufficiente per l’applicazione clinica (20).
Per quanto riguarda le possibili misure di prevenzione, l’astensione dal lavoro delle donne gravide con mansioni a rischio (insegnanti, infermiere) durante i periodi di epidemia è discussa. La principale fonte di infezione sembra essere rappresentata da bambini nell’ambiente domestico della paziente ed il virus può essere trasmesso prima della comparsa dell’esantema, rendendo impossibili efficaci misure di isolamento (15). Il parvovirus può essere trasmesso con le emotrasfusioni e, se queste si rendono necessarie nel corso della gravidanza, il sangue dovrebbe essere testato anche per tale virus (18). Attualmente non è ancora disponibile in commercio alcun vaccino contro il parvovirus B19. L’uso di alte dosi di immunoglobuline è stato suggerito per il trattamento dell’infezione sintomatica, ma non esistono dati sufficienti per validare l’utilità di tale terapia.
Morbillo
L’introduzione della vaccinazione contro il morbillo in molti paesi industrializzati ha cambiato l’epidemiologia della malattia, che in passato colpiva quasi esclusivamente i bambini, mentre al giorno d’oggi è diventata più comune negli adulti. Benché la circolazione del virus nella popolazione possa essere estremamente ridotta dai programmi di vaccinazione, la maggior parte delle donne in età riproduttiva non sono vaccinate e, se non hanno contratto il morbillo in età pediatrica, possono contrarlo per l’esposizione ad una occasionale fonte di contagio. In era prevaccinica, la prevalenza del morbillo in gravidanza era di circa 5 casi su 100.000 gravidanze, mentre la prevalenza attuale non è nota.
Benché, come nel caso della varicella, molti studi possano fornire sovrastime, il morbillo, che già è più grave nell’adulto che nel bambino, può essere particolarmente grave nelle gestanti, con un’elevata incidenza di complicazioni polmonari che possono portare a morte materna (21). Il morbillo è inoltre gravato da un’elevata incidenza di aborto, parto pretermine e morte intrauterina. Tali eventi avvengono in genere entro 2 settimane dall’insorgenza della sintomatologia clinica (21). I bambini di madri che hanno contratto il morbillo in epoca peripartale possono avere la malattia clinica nel periodo neonatale. Anche se sono stati riportati casi di anomalie congenite nei figli di madri con morbillo in gravidanza, la loro eterogeneità ed il tipo di malformazione in relazione all’età gestazionale al momento dell’infezione sembrano escludere ogni nesso di causalità.
Il ricorso all’interruzione di gravidanza per il morbillo sembra quindi ingiustificato. Al contrario, poiché le immunoglobuline risultano efficaci contro il morbillo, la loro somministrazione alle donne gravide entro 6 giorni dall’esposizione al contagio ed ai neonati di madri con morbillo in gravidanza è altamente raccomandata (21). Potrebbe risultare anche opportuno associare alla vaccinazione per la rosolia quella per il morbillo nelle donne in età riproduttiva che risultino non immuni.
Un lavoro svedese del 1996 ha riportato l’attenzione sulle possibili conseguenze del morbillo in gravidanza, suggerendo che l’esposizione del feto in utero al virus sia un fattore di rischio per il morbo di Crohn in età adulta (22). Tre dei 4 figli di madri che avevano contratto il morbillo in gravidanza negli anni 1940-49 erano affetti dal morbo di Crohn e l’antigene del virus del morbillo era riscontrabile nei focolai infiammatori intestinali. Tuttavia, tale correlazione non è stata confermata da studi britannici e danesi (23,24), in cui nessun caso di morbo di Crohn è stato identificato rispettivamente in 47 e 26 figli di madri che avevano contratto il morbillo in gravidanza. Questo tipo di segnalazioni epidemiologiche, che derivano da studi particolarmente difficoltosi da un punto di vista metodologico, possono avere conseguenze gravi se direttamente applicate alla pratica clinica, quali un aumento del ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza. Dal momento che questa viene spesso presa in considerazione dalle coppie dopo la dimostrazione di un’infezione virale in gravidanza, poiché vengono erroneamente assunti per qualunque infezione gli stessi rischi della rosolia, il sospetto di un rischio aggiuntivo può facilmente essere sovrastimato se l’informazione non è fornita correttamente. Le implicazioni etiche di decisioni prese sulla base di dati non convalidati, e tanto più per una possibile associazione con patologie ad estrinsecazione tardiva, richiedono un’estrema attenzione e sensibilità. Problemi analoghi possono sorgere, oltre che per il morbillo in gravidanza, anche per altre infezioni, quali quelle da virus influenzale (di cui è stata descritta e confutata una associazione con la schizofrenia) o da coxsackie virus B (possibile associazione con il diabete insulino-dipendente) (25, 26).