Raccomandazioni per la gestione perioperatoria
del cardiopatico da sottoporre a chirurgia non
cardiaca
Linee Guida a cura di B. Biagioli,
G. Catena, G. Clementi, G. Grillone, M. Merli,
M. Ranucci,
tratte dal sito della
SIAARTI
(Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione
e Terapia Intensiva) |
INTRODUZIONE
La richiest a di una standardizzazione nella valutazione preoperatoria
e nel trattamento di pazienti cardiopatici da sottoporre a
chirurgia non cardiaca riflette l’incremento delle procedure
chirurgiche in pazienti di età sempre più avanzata, l’uso
di nuove e molteplici tecnologie non invasive impiegate nella
valutazione e soprattutto un’abbondante letteratura di scarsa
qualità con end-points clinici di differente spessore.
Questo documento
risulta in gran parte derivato dalla revisione della letteratura
più recente e dalla trascrizione in forma sintetica dei suggerimenti
pubblicati nell’ultimo quinquennio dalle Società Scientifiche
Americane che più estesamente hanno affrontato la valutazione
del rischio cardiaco perioperatorio nella chirurgia non cardiaca:
American Heart Association e American College of Phisicians.
Le raccomandazioni,
sia in fase valutativa preoperatoria che di strategia peri
e postoperatoria, non suffragate da evidenze scientifiche
forti o consistenti, sono state comunque sottoposte a revisione
critica da parte del Direttivo del Gruppo di Studio per la
Cardiochirurgia e hanno ottenuto un consenso basato sull’esperienza.
Il proposito
principale è stato quello di:
- valutare
l’abilità prognostica dei tests clinici e non invasivi di
individuare il rischio perioperatorio di eventi cardiaci
(infarto del miocardio, ischemia, aritmia) e di morte tra
pazienti da sottoporre a chirurgia non cardiaca;
- di tratteggiare
le strategie operative pre e postoperatorie intese a ridurre
sia la mortalità che la morbilità correlata alla malattia
cardiaca di base.
Considerazioni fisiopatologiche sulla patologia di
b ase Cardiopatie
ischemiche
Nel paziente
con cardiopatia ischemica, l'esistenza di una stenosi coronarica
fa sì che il miocardio si trovi talora in situazioni in cui
l'ossigeno disponibile (apporto di ossigeno) è inferiore ai
bisogni metabolici (consumo di ossigeno). Pertanto, il paziente
coronaropatico tollera male le condizioni cliniche anche preoperatorie
in cui si realizza uno sbilanciamento tra apporto e consumo
di ossigeno, vale a dire gli stati di desaturazione arteriosa,
di anemia, di ipotensione grave e gli stati iperdinamici [1].
Nel contesto
della patologia coronarica vanno identificate differenti situazioni
cliniche che si associano ad un profilo di rischio operatorio
crescente a parità di intervento da eseguire [2-4]: l'angina
stabile, l'infarto pregresso (occorso oltre otto settimane
dall'intervento),l'angina instabile, infarto recente (verificatosi
entro cinque - otto settimane dall'intervento) e l'infarto
acuto (occorso nei 30 giorni precedenti l'intervento).
In pazienti
diabetici con disfunzione del sistema nervoso autonomo (compromissione
del parasimpatico cardiaco), l'ischemia miocardica può verificarsi
senza comparsa di angina; si configura così il quadro clinico
dell'ischemia silente, il cui riconoscimento identifica una
sottopopolazione di pazienti a rischio elevato di infarto
e morte cardiaca improvvisa [5].
L'angina stabile
è espressione di una stenosi coronarica fissa ed è caratterizzata
da una soglia di angina ben identificabile, mentre nell'angina
instabile le lesioni coronariche e la spiccata vasoreattività
mediano un quadro clinico più grave caratterizzato da un rapido
progredire dei sintomi verso uno stato di male anginoso. I
n effetti, nella casistica di Shah et al., l'incidenza di
IMA perioperatorio nei pazienti con angina instabile pari
al 28% [2].
Anche il tempo
intercorso tra l'episodio infartuale e l'intervento di chirurgia
non cardiaca permette di definire il rischio di reinfarto
perioperatorio. Per quanto lo studio sia stato effettuato
in epoca precedente l'impiego dei trombolitici che hanno modificato
l’evoluzione dell’IMA, ed il valore dei dati ottenuti possa
quindi non riflettere la realtà del momento attuale, il rischio
di reinfarto è stato stimato del 27%, dell'11% e del 4% rispettivamente
nei pazienti sottoposti ad intervento entro 3 mesi, nei 3-6
mesi e oltre 6 mesi da un pregresso infarto miocardico [3].
Un parere autorevole sull'argomento è stato recentemente espresso
dall'American College of Cardiology/American Heart Association
Task Force che ha invitato a considerare a rischio aggiuntivo
di reinfarto i pazienti sottoposti ad intervento di chirurgia
non cardiaca nelle otto settimane successive ad un episodio
infartuale [4].
Cardiopatie
valvolari
Tra le cardiopatie
valvolari le stenosi sono più temibili delle insufficienze.
Tra tutte le
valvulopatie merita particolare attenzione la stenosi aortica
[6]. Nella stenosi aortica, l'ostruzione critica all’eiezione
ventricolare e l'ischemia miocardica per inadeguata perfusione
coronarica possono condurre ad arresto cardiocircolatorio
refrattario alle usuali manovre di rianimazione cardiopolmonare.
Nella stenosi
mitralica l'ipertensione del circolo polmonare e la diminuita
compliance polmonare rappresentano le alterazioni fisiopatologiche
più rilevanti.
Nella insufficienza
mitralica e/o aortica, l' evenienza di bradicardia e l'aumento
delle resistenze vascolari sistemiche aumentano la frazione
di rigurgito; questa condizione clinica si accompagna pertanto
a brusco deterioramento dell'assetto emodinamico, come del
resto la presenza di aritmie ipercinetiche.
Cardiopatie
dilatative
Nelle cardiopatie
dilatative le variazioni acute del precarico, l’ aumento del
postcarico e le aritmie (tachicardie e bradicardie con perdita
del ritmo sinusale) sono importanti nell’aggravamento rapido
della già compromessa contrattilità.
Valutazione
preoperatoria
La valutazione
preoperatoria del cardiopatico da sottoporre ad intervento
di chirurgia non cardiaca ha come principali obiettivi:
- la definizione
della natura, della gravità e delle ripercussioni della
cardiopatia su vari apparati e funzioni dell’organismo;
- la stratificazione
del rischio operatorio, in base alla gravità della cardiopatia
e alla natura dell'intervento chirurgico;
- la pianificazione
di una strategia operativa in funzione del rischio.
Nel 1996, una
task force multidisciplinare nominata dall'American College
of Cardiology (ACC) e dall'American Heart Association (AHA)
ha stilato una serie di linee guida per la valutazione cardiovascolare
perioperatoria in chirurgia non cardiaca [4, 8]. Questo documento,
che unitamente a quello emanato nell’anno successivo dall'American
College of Physicians affronta il problema in modo sistematico
ed esprime important i concetti. L'anamnesi
del paziente, l'analisi dei documenti clinici ed un accurato
esame obiettivo sono i momenti fondamentali della valutazione
preoperatoria. Nella maggior parte dei pazienti, semplici
domande consentono di definire la riserva funzionale cardiovascolare:
in particolare, la capacità di salire almeno un piano di scale
senza disturbi caratterizza una riserva funzionale moderata
(³ 4 MET; MET = livello di equivalente metabolico) (Tabella
1). L'elettrocardiogramma
(ECG) a riposo, il radiogramma del torace, un bilancio ematochimico
completo (esame emocromocitometrico completo di conta piastrinica,
attività protrombinica e tempo di tromboplastina parziale,
creatininemia, glicemia, sodiemia, potassiemia, cloruremia,
calcemia) sono obbligatori nel paziente affetto da cardiopatia.
I pazienti
possono essere raggruppati in tre categorie in base alla presenza
di fattori di rischio cardiovascolare definiti rispettivamente
maggiori, intermedi e minori.
Sono:
Fattori
di rischio maggiori:
- sindromi
coronariche instabili: infarto miocardico acuto (< 30
giorni) con evidenza clinica o strumentale di ischemia residua,
angina instabile o invalidante;
- insufficienza
cardiaca scompensata;
- valvulopatia
grave;
- aritmie
gravi: blocco atrio-ventricolare di grado avanzato (blocco
di II grado, Mobitz 2 > 2:1; blocco di III grado), aritmie
ventricolari sintomatiche, aritmie sopraventricolari con
risposta ventricolare non controllata.
Fattori di
rischio intermedi:
- angina stabile
o controllata;
- infarto
miocardico pregresso;
- insufficienza
cardiaca compensata o pregresso scompenso cardiaco
- diabete
mellito.
Fattori di
rischio minori:
- età avanzata;
- ECG anormale
(blocco di branca sinistra, ipertrofia ventricolare sinistra,
anomalie della ripolarizzazione, ritmo non sinusale);
- ridotta
capacità funzionale;
- pregresso
infarto cerebrale;
- ipertensione
arteriosa non controllata dalla terapia medica o non trattata.
Analogamente,
gli interventi chirurgici possono essere distinti in tre gruppi
in base al rischio cardiovascolare ad essi correlato.
Sono interventi
chirurgici:
Ad alto
rischio (classe A):
- interventi
maggiori in urgenza, specie nell'anziano;
- interventi
di chirurgia aortica e vascolare arteriosa periferica;
- procedure
chirurgich e prolungate e/o associate a importanti variazioni
volemiche.
A rischio intermedio
(classe B):
- interventi
di tromboendoarterectomia carotidea;
- interventi
di chirurgia toracica e addominale;
- interventi
chirurgici della testa e del collo;
- procedure
ortopediche;
- interventi
chirurgici della prostata.
A rischio basso
(classe C):
- procedure
endoscopiche;
- procedure
chirurgiche di superficie;
- intervento
di cataratta;
- chirurgia
della mammella
Identificati in
ciascun paziente i fattori di rischio cardiovascolare e il rischio
di complicanze cardiovascolari in relazione alla procedura chirurgica,
le indicazioni fornite dall'AHA/ACC si possono schematicamente
riassumere come segue:
- I pazienti
con fattori di rischio maggiori necessitano di una valutazione
cardiologica immediata che condurrà, nella maggior parte
dei casi, ad una rivascolarizzazione miocardica o ad una
chirurgia valvolare o ad una modificazione della terapia
medica in atto, a prescindere dalla natura dell'intervento
chirurgico proposto, e purchè questo non rivesta carattere
di emergenza,.
- I pazienti
con fattori di rischio intermedi possono essere sottoposti
ad intervento chirurgico di elezione senza indagini supplementari
se la loro riserva funzionale è almeno moderata e l'intervento
proposto è a rischio basso o intermedio. Qualora l'intervento
sia a rischio elevato, e comunque quando la capacità funzionale
è scarsa, è necessaria una valutazione cardiologica .
- I
pazienti con fattori di rischio minori possono essere sottoposti
ad intervento chirurgico di elezione senza indagini supplementari,
qualsiasi sia la natura dell'intervento programmato, se
la loro riserva funzionale è almeno moderata e, in caso
di scarsa capacità funzionale, se la chirurgia è a rischio
basso o intermedio. In caso di chirurgia ad alto rischio
e di scarsa capacità funzionale, è necessaria una valutazione
cardiologica (Fig.1).
Inoltre, in ogni
paziente, una particolare cura va posta nell'individuazione
e nell'ottimizzazione di quelle patologie non cardiache che
aggravano il rischio cardiaco e operatorio, vale a dire l'anemia,
la malattia polmonare cronica, l'epatopatia avanzata e l'insufficienza
renale.
Rispetto al documento dell'AHA/ACC, le linee guida pubblicate
nel 1997 dall’American College of Physicians (ACP) derivano
dall'applicazione di un metodo di analisi dei dati in cui la
relazione tra un dato parametro (es.: angina instabile) e un
dato evento (morte per cause cardiache nel periodo perioperatorio)
è valutata come solidità (forza) dell'evidenza che correla l'uno
all'altro, quest'ultima essendo poi definita come debole, consistente
e forte [4, 9]. Le linee guida dell’ACP per la valutazione del
rischio perioperatorio di infarto miocardico e di morte per
cause cardiache nel paziente cardiopatico s ottoposto a chirurgia
non cardiaca sviluppano tre punti fondamentali. Il
primo punto riguarda l'identificazione della classe di rischio
cardiovascolare, necessaria per identificare in quali pazienti
richiedere una valutazione cardiologica e l'esecuzione di
indagini diagnostiche cardiologiche. Per la stratificazione
del rischio viene proposta una scala a punteggio, il Cardiac
Risk Index di Goldman modificato da Detsky [10] (Tabella
2). In relazione al punteggio totale
(compreso tra 0 e 100) ottenuto, i pazienti sono stratificati
in tre classi di rischio con diversa probabilità di complicanze
cardiache maggiori (Tabella 3).
I pazienti
in classe 2 e 3 sono considerati sicuramente ad elevato rischio
di complicanze cardiache perioperatorie.
La possibilità
di complicanze maggiori non può essere tuttavia esclusa nei
pazienti che hanno ottenuto un basso punteggio globale poiché
l'accuratezza predittiva negativa del Cardiac Risk Index non
è buona. Pertanto, i pazienti in classe 1 devono essere ulteriormente
indagati per la presenza degli "indici di basso rischio"
identificati da Eagle et al. [11]e da Vanzetto et al. [12]
(Tabella 4).
Sono realmente
a basso profilo di rischio i pazienti che non presentano nessuno
o solo uno degli indici di basso rischio considerati. I pazienti
a basso rischio di complicanze cardiache maggiori perioperatorie
possono essere sottoposti all’intervento chirurgico di elezione
senza ulteriori accertamenti diagnostici.
Nei pazienti
in cui si identificano due o più indici di basso rischio,
il profilo di rischio deve essere considerato di entità intermedia.
In questi pazienti è necessaria l'esecuzione di indagini ulteriori
al fine di ristratificare il rischio di complicanze cardiache
perioperatorie.
Le indagini
cardiologiche che consentono un'ulteriore stratificazione
del rischio includono quelle che valutano la funzione ventricolare
sinistra, l’ischemia cardiaca e relativa riserva coronarica
od entrambi.
La valutazione
della frazione d’eiezione a riposo non aggiunge alla valutazione
clinica dati che contribuiscono alla ulteriore stratificazione
del rischio; la ventricolografia (evidenza consistente) e
l’ecocardiografia transtoracica (evidenza forte) non sono
test idonei a stimare il rischio perioperatorio [13, 14].
Le indagini
ergometriche non possono essere effettuate da molti pazienti
(dal 30% al 70%) in lista per interventi di chirurgia vascolare
e dai soggetti con alterata capacità di deambulare. In ogni
caso, il potere predittivo dei test ergometrici è risultato
basso [15,16].
La scintigrafia
al tallio e/o l’eco-dobutamina, soprattutto nel caso di test
negativo, consentono la ristratificazione del rischio nei
pazienti inizialmente classificati a rischio intermedio e
candidati ad intervento di chirurgia vascolare (evidenza forte),
in cui la loro esecuzione è quindi consigliabile [12, 17].
Al contrario, non è evidente il vantaggio di sottoporre a
scintigrafia o a eco-dobutamina pazienti a basso rischio candidati
a chirurgia vascolare (evidenza consistente – forte) [11]
e i pazienti a rischio basso ed intermedio candidati a chirurgia
non vascolare (evidenza debole) [18].
Il monitoraggio
Holter preoperatorio non ha potere predittivo sul rischio
nei pazienti candidati a procedure di chirurgia non vascolare
(evidenza forte) [19]. Anche nei pazienti in lista per procedure
di chirurgia vascolare, al momento attuale non esistono dati
sufficienti a provare una reale utilità del test.
In definitiva
le indagini cardiologiche non invasive possono non essere
in grado di stratificare completamente i pazienti dal
momento che gli eventi postoperatori hanno probabilmente genesi
multifattoriali con implicazioni sia sulla richiesta che sull’offerta
di ossigeno, indipendentemente dalla presenza o meno di stenosi
coronarica (sanguinamento, anemia, ipercoagulabilità, dolore
e stress chirurgico).
La coronarografia
è un'indagine invasiva e rischiosa. L'esame coronarografico
non può essere pertanto consigliato al solo fine della stratificazione
del rischio perioperatorio. L'unica eccezione è rappresentata
da quei pazienti in cui è necessario completare la diagnostica
di una sospetta coronaropatia indipendentemente dall’intervento
di chirurgia non cardiaca [20].
Complessivamente,
nei pazienti sottoposti a Chirurgia Vascolare il 20% di quelli
sottoposti alla procedura di stratificazione del rischio rientra
nella classe ad elevata probabilità di complicanze cardiache
perioperatorie. Di questi, circa la metà sono pazienti inizialmente
ritenuti a rischio intermedio e ristratificati nella classe
di alto rischio attraverso le indagini cardiologiche non invasive
(evidenza forte) [12,17].
Una volta identificata
la classe di rischio a cui un paziente appartiene è poi necessario
identificare le strategie operative per minimizzare il rischio
in ogni singolo paziente. Si possono riconoscere alcune situazioni
paradigmatiche.
- Il rischio
è legato a fattori non modificabili quali l’età. Va considerata
la possibilità di cambiare l'approcci o chirurgico eseguendo,
anziché un intervento radicale, un gesto palliativo o meno
invasivo; in alcuni casi può essere opportuno escludere
alcuna opzione chirurgica.
- Il rischio
è legato a patologia cardiaca non ischemica suscettibile
di miglioramento (scompenso, aritmia, valvulopatia). In
questo caso va in primo luogo ottimizzato il trattamento
medico della cardiopatia; successivamente il rischio dovrà
essere rivalutato.
- Il rischio
è legato ad una cardiopatia ischemica suscettibile di correzione
chirurgica. La decisione sull'opportunità di procedere ad
una rivascolarizzazione miocardica prima dell’intervento
di chirurgia non cardiaca dipende da quanto la correzione
della coronaropatia modifica la prognosi a breve e lungo
termine.
Per quanto attiene
alla prognosi a breve termine, al momento attuale non sono disponibili
indagini prospettiche. Due indagini retrospettive mirate ad
evidenziare se la prognosi a breve termine di pazienti sottoposti
a chirurgia vascolare è positivamente influenzata dalla precedente
correzione chirurgica della patologia coronarica concludono
che la riduzione del rischio di complicanze cardiache maggiori
può essere tuttavia controbilanciata dal rischio proprio della
procedura di bypass coronarico [20, 21]. Il
valore della angioplastica coronarica percutanea (PTCA) è
stabilito molto meno bene. Un recente lavoro di Gottlieb et
al. ha valutato l’influenza della PTCA sulla prognosi a breve
termine di pazienti ad alto rischio in lista per procedure
di chirurgia vascolare. I pazienti sottoposti ad angioplastica
prima della chirurgia vascolare, presentavano un'incidenza
di complicanze cardiache perioperatorie inferiore a quella
dei pazienti con profilo di rischio similare non sottoposti
a rivascola rizzazione (evidenza debole) [22]. Più recentemente
Posner, sempre in un’analisi retrospettiva, non rilevava differenze
tra pazienti coronaropatici trattati con pregressa PTCA e
non trattati nelle complicanze più gravi (infarto del miocardio
e morte) dopo chirurgia non cardiaca (evidenza debole) [23].
Quindi la corrente evidenza non supporta l’uso della PTCA
al di là di indicazioni prestabilite anche se questi dati
meritano conferma da indagini prospettiche in quanto l'angioplastica,
efficace nel risolvere l'angina ma meno costosa e meno rischiosa
rispetto al bypass coronarico, potrebbe rappresentare un'opzione
valida per ridurre il rischio di complicanze cardiache tanto
più se si considera il fatto che dopo angioplastica è possibile
procedere all'intervento di chirurgia non cardiaca in tempi
brevi.
Per quanto
riguarda i benefici a lungo termine del bypass coronarico
prima dell’intervento di chirurgia non cardiaca, esiste una
forte evidenza a favore della rivascolarizzazione per i pazienti
con angina instabile refrattaria alla terapia medica massimale,
con stenosi del tronco comune, con malattia trivasale e depressa
funzione miocardica, con malattia bivasale ma stenosi critica
prossimale della discendente anteriore e disfunzione ventricolare
sinistra [24].Questi stessi pazienti rientrano in quella categoria
di cardiopatici in cui, secondo le linee guida dell’ACC/AHA,
sarebbe indicato procedere a bypass coronarico indipendentemente
dal problema contingente dell’intervento di chirurgia non
cardiaca. Queste indicazioni sono state confermate nella revisione
delle linee guida pubblicate nel 1999 con l’aggiunta di: malattia
bivasale-equivalente del tronco comune e malattia di uno o
due vasi senza lesioni significative della discendente anteriore
e presenza di ampia area vitale a rischio [25]. Eagle et al
utilizzando il Coronary Artery Surgery Study Database per
indagare sull’influenza di precedente intervento di bypass
coronarico al foll ow-up di 4.1 anni concludeva per un potere
predittivo nei pazienti con angina avanzata e/o malattia coronarica
multivasale se confrontati con pazienti in solo trattamento
farmacologico (evidenza debole) [26].
Tuttavia,
mancando uniformità di consenso ed evidenza sul timing ottimale
dell’intervento di bypass rispetto a quello non cardiaco è
consigliabile decidere non sulla base di protocolli standardizzati
ma, in ogni singolo caso, in base alla gravità della coronaropatia,
all'urgenza dell’intervento non cardiaco e - non ultimo- al
parere del paziente debitamente informato.
Gestione della
terapia cardiovascolare nell'ambito della chirurgia non cardiaca
Aspetti generali sull’impiego
dei farmaci cardiovasoattivi
Il paziente
cardiopatico è per lo più in terapia medica cronica, basata
sull’impiego combinato di uno o più farmaci cardiovasoattivi
e, nella maggior parte dei casi, di farmaci che agiscono sull’emostasi
(Tabella 5).
Ad eccezione
dei pazienti in compenso cardiocircolatorio precario, talora
in terapia endovenosa, i farmaci cardiovasoattivi vengono
generalmente somministrati per via orale. Per alcuni principi
attivi (nitroderivati, a2-agonisti) sono anche
disponibili formulazioni a cessione transdermica, di uso piuttosto
diffuso. L’assorbimento di questi medicamenti, somministrati
per via orale o transdermica, è prevedibile solo se è mantenuta
l’integrità anatomica e funzionale della via di assorbimento,
cosa che non sempre si verifica nel periodo perioperatorio,
anche nel caso in cui la sede dell’atto chirurgico non sia
l’apparato gastroenterico o muscolo tegumentario: basti pensare
alla frequenza con cui si veri ficano nel postoperatorio alterazioni
funzionali del transito intestinale (ileo, vomito) e fenomeni
di ipoperfusione cutanea.
Pertanto, e soprattutto nei pazienti con compenso più labile,
è opportuno pianificare preventivamente tipo, dose, via e
modalità di somministrazione dei farmaci cardiovasoattivi
da utilizzare nel periodo perioperatorio.
Per quanto
riguarda la scelta del medicamento, non per tutti i farmaci
è disponibile sia la formulazione orale che parenterale: è
il caso di diversi b -bloccanti e degli ACE-inibitori, che
devono essere sostituiti con farmaci a profilo farmacodinamico,
almeno ad effetto cardiovascolare, similare.
Quanto alla
dose, la biodisponibilità di molti medicamenti dati per via
orale è incompleta. Pertanto, le dosi da impiegare per uso
endovenoso possono essere inferiori rispetto a quelle somministrate
per via enterale: è questo il caso del propranololo e dei
calcio-antagonisti.
Con l’eccezione
di alcuni farmaci (nitroglicerina, nifedipina), che vengono
assorbiti rapidamente attraverso la mucosa sottolinguale e
possono essere somministrati d’urgenza rispettivamente in
occasione di crisi anginose e di crisi ipertensive, la via
di somministrazione di scelta dei medicamenti cardiovasoattivi
nel periodo perioperatorio è quella endovenosa. La somministrazione
endovenosa consente infatti di prescindere dalla variabilità
nella risposta al farmaco dovuta all’alterazione dei processi
di assorbimento, di individuare esattamente la dose di farmaco
che produce l’effetto desiderato e di mantenere tale effetto
costante mediante infusione endovenosa. Tali obiettivi possono
essere raggiunti quando la somministrazione dei farmaci cardiovasoattivi
viene effettuata con precisione, vale a dire mediante pompe
infusionali in vie venose dedicate. A questo proposito, per
quanto consigliabile nei pazienti con co mpenso labile, non
esistono dati certi a supporto della pratica di incannulare
sistematicamente un vaso venoso centrale al fine di infondere
farmaci.
E’ comunque
sconsigliabile l’infusione continua di più farmaci cardiovasoattivi
in un unico condotto venoso utilizzando prolunghe e raccorderie,
come pure l’infusione in una stessa linea venosa di farmaci
cardiovasoattivi e liquidi di riempimento. In entrambi i casi,
modificare la velocità di infusione di una soluzione significa
modificare la velocità di somministrazione del volume di liquido
(e ovviamente la quantità di farmaco) che è contenuto distalmente
al raccordo, cosa che può causare alterazioni emodinamiche
tanto più gravi quanto maggiore è la concentrazione dei farmaci
in soluzione.
Come ultima
osservazione di carattere generale va ricordato che l'impiego
della via intramuscolare deve essere considerato con cautela
nei pazienti in terapia anticoagulante - e molti pazienti
cardiopatici lo sono - per il rischio di ematomi nel punto
di iniezione.
Aspetti specifici sulla
terapia con farmaci cardiovasoattivi
Esiste consenso
nel ritenere che un paziente ben compensato sul piano clinico
grazie ad una terapia medica adeguata sia nelle condizioni
migliori per reggere lo stress perioperatorio e che, al fine
di garantire un compenso clinico ottimale, la terapia assunta
cronicamente debba essere continuata perioperatoriamente.
Di fatto, non sono note interazioni tra farmaci cardiovasoattivi
ed anestetici di entità tale da rendere necessaria la sospensione
preoperatoria dei primi. Al contrario, è stato dimostrato
che la sospensione dei medicamenti cardiovasoattivi può essere
associata ad alterazioni emodinamiche [27, 28].
In merito alla
somministrazione della te rapia prima dell’intervento, dato
che l’assunzione di acqua nell’ora precedente l’induzione
dell’anestesia è da ritenersi sicura nei pazienti senza patologie
dell’apparato gastroenterico, la terapia può essere assunta
regolarmente per via orale alle dosi abituali prima dell’intervento.
Quanto alla
somministrazione della terapia dopo l’atto chirurgico, nel
caso in cui questo non comporti o non si accompagni ad alterata
funzionalità gastrointestinale ed il paziente sia ben collaborante,
la terapia potrà essere assunta come di consueto. Nel caso
invece in cui la via enterale sia preclusa, è necessario considerare
altre modalità di assunzione dei medicamenti cardiovasoattivi
anche per evitare la ripresa della sintomatologia cardiologica
e/o l’insorgenza di sindromi da sospensione. Queste ultime,
descritte per gli a2-agonisti e i b -bloccanti,
si manifestano come crisi ipertensive con tachiaritmie, che
a loro volta possono accompagnarsi ad ischemia miocardica.
A tutt’oggi,
gli studi mirati ad evidenziare una possibile relazione tra
mantenimento o sospensione della terapia cardiovasoattiva
ed incidenza di complicanze cardiovascolari perioperatorie
in popolazioni a rischio sono pochi ed esclusivamente limitati
a soggetti con cardiopatia ischemica, che è di gran lunga
la cardiopatia più frequente. Da questi studi, emergono risultati
rilevanti sul piano clinico.
Per quanto
attiene ai b-bloccanti, è stato dimostrato che l'incidenza
e la gravità dell'ischemia miocardica perioperatoria è significativamente
inferiore nei pazienti coronaropatici o con fattori di rischio
per coronaropatia che giungono all’intervento di chirurgia
non cardiaca con la terapia b-bloccante mantenuta fino all’immediato
preoperatorio e ripresa precocemente nel postoperatorio (evidenza
forte) [29]. Il McSPI Research Group ha confermato che la
somm inistrazione preoperatoria di atenololo al momento dell’induzione
e poi per 1 settimana dopo a pazienti ad alto rischio per
coronaropatie, riduce significativamente l’incidenza di ischemia
miocardica postoperatoria. Tale riduzione è significativamente
associata a riduzione del rischio di morte a 2 anni (evidenza
forte) [30]. L'azione cardioprotettiva dei b -bloccanti è
conseguente all'effetto inotropo e cronotropo negativo che,
limitando la risposta cardiaca in contrattilità e frequenza
allo stimolo algogeno, riduce il consumo di ossigeno del miocardio,
di cui al tempo stesso migliora la perfusione.
A fronte dei benefici enunciati, la terapia perioperatoria
con b -bloccanti non è esente da rischi, specie in contesti
clinici complessi (pazienti con riserve limitate in condizioni
critiche). L'impossibilità ad aumentare la portata cardiaca
per effetto della terapia b -bloccante può infatti condurre
a non soddisfare le richieste tessutali, specialmente quando
coesistono anemia, ipovolemia, febbre, stati di ipercatabolismo.
Ove possibile, una opportuna correzione di tali condizioni
, unitamente alla messa in atto di un monitoraggio emodinamico
adeguato, diventa di importanza determinante.
Per quanto
raccomandata, la somministrazione perioperatoria di calcio
antagonisti e nitrati non risulta essere associata ad un effetto
preventivo sull'ischemia perioperatoria evidente quanto quello
emerso per i b -bloccanti. Questo verosimilmente a ragione
del meccanismo stesso d'azione di questa classe di medicamenti.
Nei pazienti in terapia con calcio-antagonisti e nitrati,
infatti, la risposta in frequenza cardiaca allo stimolo simpatico
può non essere marcatamente depressa. Lo stimolo algogeno
può quindi essere responsabile di uno squilibrio acuto tra
apporto e consumo di ossigeno, con conseguente ischemia.
In questo contesto,
l'impiego perioperatorio degli a2-agonisti potrebb
e trovare uno spazio proprio, tanto più se si considera il
fatto che questi medicamenti sono provvisti d'azione sedativa,
ansiolitica ed analgesica e limitano l'entità del brivido
postoperatorio, che comporta rilevante consumo di ossigeno
[31].
Considerazioni
particolari vanno fatte in merito all'impiego perioperatorio
di ACE-inibitori, una classe di farmaci largamente utilizzati
in pazienti con ipertensione arteriosa e con deficit di pompa
cardiaca. In pazienti ipertesi trattati con ACE-inibitori,
l’induzione della narcosi si può accompagnare a severi episodi
ipotensivi e bradicardia, talora correggibili solo ricorrendo
a farmaci vasopressori. Per questo motivo alcuni Autori consigliano,
nel preoperatorio, di sospendere l'ACE-inibitore, sostituendolo
con antipertensivi di altra classe farmacologica. I tempi
minimi consigliati di sospensione dell’ACE-inibitore prima
di un intervento chirurgico sono di 12 h per il captopril
e il quinapril e di 24 h per l'enalapril, il linosipril e
il ramipril (evidenza forte) [32]. Ammesso che la sospensione
dell'ACE-inibitore possa essere ritenuta praticabile nel contesto
di una cardiopatia ipertensiva, bisogna riflettere sull'opportunità
di tale comportamento nei pazienti con funzione contrattile
depressa, in cui l'ACE-inibitore è il vasodilatatore più largamente
utilizzato. In questi pazienti infatti un aumento del postcarico
può accompagnarsi a scompenso cardiocircolatorio acuto.
Sebbene gli
antiaritmici di classe Ia e Ib interferiscano con i curari
non depolarizzanti (prolungandone la durata d'azione), l'eventuale
terapia antiaritmica in corso deve essere mantenuta nel periodo
perioperatorio per evitare la ripresa delle aritmie. Per quanto
siano stati riportati casi di ipotensione refrattaria, bradicardia
resistente all'atropina e dissociazione atrioventricolare
nei pazienti in trattamento con amiodarone [33], la sospensione
di tale terap ia nel preoperatorio è inopportuna per ragioni
cliniche (ripresa delle aritmie) e farmacocinetiche (il tempo
di emivita dell'amiodarone è pari a 29-100 giorni).
Per quanto
attiene ai pazienti in trattamento endovenoso continuo con
farmaci cardiovasoattivi, nel perioperatorio, l’infusione
di questi farmaci non va sospesa ma ottimizzata. A tal fine,
il monitoraggio emodinamico (vedi oltre) è necessario. L’induzione
della narcosi può associarsi a ipotensione (da deficit contrattile
del cuore) con ipoperfusione, contenibile in parte somministrando
gli anestetici lentamente, alle dosi minime possibili per
ottenere l’effetto desiderato e tenendo conto del fatto che
la latenza dell’effetto può essere marcatamente aumentata.
Nel corso dell’intervento, le variazioni volemiche acute vanno
contrastate e prontamente corrette. Allo stesso modo devono
essere corrette le alterazioni elettrolitiche, che possono
causare gravi turbe del ritmo cardiaco.
Aspetti specifici sulla
terapia con farmaci attivi sull'emostasi
La maggioranza
dei pazienti coronaropatici è in terapia antiaggregante, generalmente
con acido acetilsalicilico a basse dosi o ticlopidina, più
raramente con dipiridamolo, indobufene o picotamide monoidrato.
Come per i
b-bloccanti, anche l'acido acetilsalicilico va continuato
nel perioperatorio in quanto il suo impiego è associato ad
una minore incidenza di ischemia miocardica in assenza di
un sostanziale aumento del sanguinamento chirurgico [27].
Malauguratamente,
anche bassi dosaggi di aspirina possono causare gastropatia
erosiva, il che giustifica la pratica di istituire una gastro-protezione
farmacologica sistematica in tutti i pazienti in terapia antiaggregante
con aspirina, indipendentemente da ogni contesto p erioperatorio
[34].Durante il periodo perioperatorio, che rappresenta una
causa indipendente di stress per l'organismo, l'impiego di
gastroprotettori, raccomandato in linea generale, è da ritenersi
necessario nei soggetti in terapia con salicilati.
La ticlopidina
è l’antiaggregante di scelta nei pazienti intolleranti e/o
allergici all'aspirina. L'effetto antiaggregante persiste
per oltre 8 giorni dopo l'interruzione del farmaco. A tutt'oggi,
la gestione della terapia con ticlopidina nel periodo perioperatorio
non è codificata. Per una chirurgia elettiva, sembrerebbe
prudente sospendere la terapia con ticlopidina [35, 36]. Per
procedure d'urgenza, rimane dubbia l'efficacia della terapia
steroidea e di desmopressina; nel caso di rischio emorragico
rilevante, probabilmente è preferibile la trasfusione di concentrati
piastrinici [36].
In considerazione
del numero limitato di pubblicazioni pertinenti, non è possibile
identificare linee guida in merito alla gestione perioperatoria
della terapia antiaggregante con dipiridamolo, indobufene
e picotamide.
Sebbene qualche
caso di ematoma epidurale dopo anestesia loco-regionale sia
stato descritto in pazienti antiaggregati con aspirina o antinfiammatori
non steroidei, l’incidenza di tale complicanza non pare essere
significativamente maggiore nei pazienti trattati con aspirina
rispetto a quelli non in terapia antiaggregante (evidenza
consistente) [37]. E' quanto emerge da dati ottenuti in studi
clinici retrospettivi e prospettici condotti, nei primi anni
novanta, su larghe casistiche di pazienti antiaggregati con
aspirina, in cui pertanto la possibilità di un'anestesia loco-regionale
non deve ritenersi preclusa dalla terapia antiaggregante [27].
Studi simili non risultano essere stati finora effettuati
su popolazioni trattate con ticlopidina, a cui non pare corretto
estendere le c onclusioni emerse per l’aspirina.
La gestione
perioperatoria della terapia anticoagulante è estremamente
difficile per la complessità intrinseca della materia e per
la contemporanea esigenza di:
- effettuare
l'atto chirurgico in presenza di un assetto coagulativo
quasi normalizzato, per limitare il rischio di complicanze
emorragiche da eccessiva anticoagulazione (in corso di intervento
o nell'immediato postoperatorio);
- limitare
al minimo necessario il periodo con assetto coagulativo
ai limiti della norma per evitare l'insorgenza di complicanze
tromboemboliche.
E’ nostra convinzione
che una gestione ottimale della terapia anticoagulante nel periodo
perioperatorio sia uno degli elementi centrali nell’assistenza
al malato cardiopatico. Un approccio razionale alla gestione
della terapia anticoagulante, che può essere opportuno e preferibile
concordare – a seconda delle diverse realtà operative – con
specialisti nel campo dell’emostasi, deve tener conto:
- dei
fattori che motivano la necessità dell'anticoagulazione
nel singolo paziente (Tabella
5),
- dell'atto
chirurgico cui il paziente deve essere sottoposto (Tabella
6),
- del
rischio relativo di tromboembolia e di sanguinamento rispettivamente
in corso di anticoagulazione perioperatoria completa e subottimale,
- degli
strumenti di cui il medico dispone per modificare l'assetto
coagulativo in relazione con lo specifico contesto clinico (Tabella
7) [27, 38-42].
L'impiego dell'eparina
viene limitato a brevi periodi di trattamento mentre la terapia
anticoagulante cronica è basata sulla somministrazione per via
orale di dicumarolici. In Italia sono commercializzate due dicumarolici,
l'acenocumarolo (Sintromâ ) e la warfarina (Coumadinâ ), tra
loro differenti per caratteristiche farmacocinetiche. Il tempo
di emivita dell'acenocumarolo è infatti inferiore a quello della
warfarina, di cui è pertanto più prolungata la durata dell'effetto
farmacologico dopo la riduzione della posologia o la sospensione
della terapia.
In previsione di una chirurgia maggiore elettiva o differibile,
il dicumarolico va interrotto e sostituito con un'appropriata
terapia eparinica [38]. Nel
paziente in range ottimale di anticoagulazione, la somministrazione
di eparina deve iniziare quando l'INR è di poco superiore
a 2, vale a dire circa 24 h dopo l'ultima somministrazione
di Sintromâ e circa 36 h dopo l'ultima somministrazione di
Coumadinâ . La terapia eparinica, titolata al raggiungimento
di un aPTT ratio di 2-2.5, deve proseguire fino a regressione
dell'effetto dei dicumarolici. Tenendo conto dell'emivita
dei dicumarolici e ammettendo che l'INR del paziente sia circa
3, il tempo necessario alla normalizzazione dell'INR è generalmente
inferiore a 48 h per l'acenocumarolo e di 3-5 giorni per la
warfarina.
Per quanto
riguarda la via di somministrazione dell'eparina, nel periodo
preoperatorio l'infusione continua endovenosa sembra essere
preferibile alla via sottocutanea (che è pur sempre praticabile!)
probabilmente per la migliore titolabilità della dose in relazione
all'effetto.
L'eparina deve
ess ere sospesa prima dell'atto chirurgico, che può essere
eseguito in sicurezza quando il valore di aPTT è prossimo
al range di normalità. In relazione con la cinetica del farmaco
dato rispettivamente per via endovenosa e sottocutanea, il
tempo necessario a normalizzare l'aPTT dopo sospensione dell'eparina
è generalmente pari a 2-4 h nel caso dell'infusione endovenosa
e a 12-14 h dopo somministrazione sottocutanea.
Il ripristino
della terapia anticoagulante con eparina subito dopo la fine
dell'atto chirurgico è gravato da un rischio elevato di complicanze
emorragiche: il 3% dei pazienti trattati per 2 giorni con
eparina e.v. presentano complicanze emorragiche, mortali ocon
sequele nel 3% dei casi [38]. L'opportunità di iniziare la
terapia eparinica nel postoperatorio va quindi stabilita dopo
aver valutato, in ogni singolo paziente, il rischio relativo
di complicanze emorragiche ed emboliche. Sugli aspetti concreti
di tale valutazione tuttavia non esiste reale uniformità di
giudizio tra gli esperti [38, 40]. Sebbene gravata dal rischio
di sanguinamento, secondo Tavel e Stein [40], la terapia eparinica
dovrebbe essere ripresa non appena il rischio di sanguinamento
può essere considerato ragionevolmente ridotto nei pazienti
con protesi valvolare meccanica in posizione mitralica, in
cui il rischio di complicanze emboliche è verosimilmente più
elevato che nei pazienti con protesi valvolari aortiche o
con fibrillazione atriale senza complicanze emboliche nel
mese precedente la chirurgia. Proprio in considerazione del
rischio emorragico, in queste due ultime categorie di pazienti,
se sottoposti a chirurgia che non preclude l'impiego della
via enterale oltre il giorno dell'intervento, lo stesso Autore
considera ragionevole non riprendere l'infusione di eparina
ma iniziare l'anticoagulante orale non appena si possa escludere
una causa chirurgica di sanguinamento. L'Autore non precisa
se in questi pazienti, nell'attesa di raggiungere un INR ad
eguato, sia necessario somministrare eparina nelle dosi impiegate
per la profisassi della trombosi venosa profonda. Tale comportamento
è invece raccomandato da Kearon e Hirsh [38].
Al momento
di reintrodurre la terapia con anticoagulanti orali, vale
a dire una volta ripristinata una regolare attività peristaltica,
la terapia eparinica e dicumarolica devono essere effettuate
al contempo nei primi 3-5 giorni di terapia. In pratica, la
terapia eparinica può essere sospesa solo dopo il ritorno
dell'INR nei limiti del range terapeutico di anticoagulazione.
Vale la pena ricordare che l'eparina agisce da anticoagulante
solo quando la concentrazione ematica di antitrombina III
è adeguata e che condizioni cliniche spesso riscontrabili
nel perioperatorio (insufficienza epatica, stati settici)
si associano a deficit di antitrombina III.
Per una
chirurgia minimamente invasiva di tipo elettivo, una strategia
attuabile può consistere nel diminuire il livello di anticoagulazione
limitatamente al breve intervallo di tempo necessario ad effettuare
la procedura chirurgica (Tabella
6).
Nel caso di
chirurgia indifferibile, nel paziente totalmente anticoagulato
con eparina, l'eparina può essere antagonizzata mediante somministrazione
di protamina solfato, effettuata in boli endovenosi ripetuti
monitorizzando il valore di aPTT o il tempo di coagulazione
attivato (ACT). Contrariamente a quanto si verifica per l'eparina,
non esiste la possibilità di antagonizzare i dicumarolici.
Nel contesto di complicanze emorragiche pericolose per la
vita e di chirurgia maggiore indifferibile è clinicamente
accettabile la somministrazione di vitamina K1 e
di plasma fresco congelato.
Secondo
Smith [27], in relazione al rischio emorragico, nel pazien
te in terapia anticoagulante l'anestesia loco-regionale
è una tecnica relativamente controindicata e la decisione
in merito alla continuazione o alla sospensione della terapia
eparinica finalizzata all'esecuzione di un'anestesia loco-regionale
deve essere presa in base al rapporto rischio-beneficio in
ogni singolo paziente. Qualora l'anestesia loco-regionale
venga ritenuta preferibile ad altre tecniche di anestesia,
è raccomandabile dar corso alla procedura anestesiologica
solo dopo normalizzazione dei parametri coagulativi.
Gestione intraoperatoria del cardiopatico nell'ambito della
chirurgia non cardiaca
Considerazioni specifiche
alla luce della patologia di base
La gestione
perioperatoria del paziente cardiopatico deve essere finalizzata
al raggiungimento di un assetto emodinamico non necessariamente
normale ma stabile. Tale obiettivo può essere soddisfatto
non solo attraverso l'appropriata gestione della terapia cardiovasoattiva
ma anche dalla attuazione delle misure farmacologiche, ambientali
e relazionali che consentono di ridurre l'ansia generata dall'attesa
dell'intervento. Non va dimenticato infatti che molti episodi
ischemici si verificano nel periodo preoperatorio [1].
Per quanto
attiene alle competenze dell'anestesista, la presa in carico
del cardiopatico inizia con l'esame clinico, il colloquio
col paziente e la prescrizione della preanestesia. Obiettivo
della premedicazione è indurre una modesta sedazione e ridurre
l'ansia (e lo stato iperdinamico che ad essa si associa) senza
tuttavia causare eccessiva sedazione e depressione respiratoria.
Questi obiettivi sono generalmente soddisfatti utilizzando
blande dosi di benzodiazepine, che al momento rappresentano
la classe di farmaci di impiego più comune in premedicazione.
In contesti particolari (pazienti cardio patici e ipertesi,
candidati ad interventi di chirurgia vascolare) può essere
opportuno utilizzare un farmaco ad azione a2-agonista
in alternativa o in associazione con le benzodiazepine [43].
Cardiopatie
ischemiche: Nei pazienti
con angina stabile o precedentemente sottoposti a bypass aortocoronarico
o angioplastica, come precedentemente detto, l'obiettivo perioperatorio
è evitare valori estremi di pressione arteriosa e di frequenza
cardiaca. Tuttavia, poichè episodi ischemici possono talora
verificarsi anche in assenza di fattori causali immediatamente
evidenti, è importante mettere in atto un monitoraggio emodinamico
adeguato.
Nei pazienti
con angina a bassa soglia, con angina instabile o infarto
recente va valutata la possibilità di trattare la coronaropatia
prima di effettuare l'intervento di chirurgia non cardiaca.
Nel caso in cui questo rivesta carattere d'urgenza o d'emergenza
e sia un intervento ad elevato rischio di complicanze cardiache
è da considerare la messa in atto di un monitoraggio emodinamico
(cateterismo arteria polmonare sec. Swanz Ganz ed ecografia
transesofagea) ed è da valutare, anche in relazione con la
realtà operativa in cui l'anestesista si trova ad operare,
la possibilità di utilizzare perioperatoriamente la contropulsazione
aortica.
Cardiopatie
valvolari. Indipendentemente
dal tipo di valvulopatia, i pazienti valvulopatici candidati
ad interventi di chirurgia non cardiaca devono effettuare
la profilassi antibiotica dell'endocardite infettiva [44].
Per quanto
attiene alla gestione emodinamica perioperatoria, nei pazienti
con insufficienza valvolare è opportuno correggere i fattori
che esacerbano la frazione di ri gurgito (bradicardia e vasocostrizione
sistemica).
Nei pazienti
con stenosi aortica in classe non chirurgica (ovvero con gradiente
transvalvolare aortico di picco < 50 mm Hg e frazione di
eiezione del ventricolo sinistro buona), gli obiettivi da
soddisfare sono: il mantenimento di un ritmo sinusale con
frequenza compresa tra 65 e 90 battiti/minuto, il mantenimento
di una volemia normale e di resistenze sistemiche medio-alte.
L'ipotensione, specie diastolica, e la tachicardia vanno prontamente
corrette. Nei pazienti con stenosi aortica critica, la correzione
della valvulopatia mediante sostituzione valvolare o valvulotomia
percutanea deve precedere, ove possibile, l'esecuzione dell'intervento
di chirurgia non cardiaca. Se questo non fosse differibile,
nel contesto clinico di edema polmonare franco o pre-edema,
si può considerare la possibilità di una contropulsazione
aortica perioperatoria. Questa misura terapeutica può essere
praticata solo in contesti particolari, vale a dire laddove
esista disponibilità di un contropulsatore e di un esperto
nel suo impiego.
Anche nei pazienti
con stenosi mitralica serrata la correzione della valvulopatia
dovrebbe precedere, ove possibile, l'esecuzione dell'intervento
di chirurgia non cardiaca. Nelle stenosi mitraliche, anche
in classe non strettamente chirurgica (cioè con area mitralica
>1.5 cm2) sono spesso presenti fibrillazione
atriale (cronica o parossistica), ipertensione polmonare e
sovraccarico ventricolare destro. Il ritmo sinusale è importante
per il compenso emodinamico. Tuttavia, nei pazienti in fibrillazione
atriale cronica, il ripristino del ritmo sinusale mediante
cardioversione elettrica o farmacologica è spesso impossibile.
In questi soggetti, pertanto, la fibrillazione atriale va
accettata. Nel caso in cui la frequenza di risposta ventricolare
sia molto elevata, è tuttavia giustificato intervenire farmacol
ogicamente, poichè solo la riduzione della frequenza ventricolare
consente un riempimento ventricolare adeguato, da cui dipende
criticamente la portata cardiaca. Nel paziente con stenosi
mitralica è poi necessario mantenere normale la volemia, contrastare
l'eccessiva vasodilatazione sistemica ed evitare (o correggere)
gli stati di ipossiemia, ipercapnia e acidosi metabolica che
aumentano i valori di pressione polmonare, già elevati in
questa patologia.
Cardiopatie
dilatative. Nei pazienti
con cardiopatia dilatativa vanno valutate l'eziologia della
cardiopatia di base (cardiopatia idiopatica, post-ischemica,
valvolare, post-chemioterapica), il grado di compenso e la
riserva funzionale del paziente.
L'intervento,
dove non esistano condizioni cliniche che ne rendono inopportuno
il differimento, deve aver luogo dopo il raggiungimento delle
condizioni di compenso cardiovascolare migliori possibili
con la terapia medica. L'obiettivo perioperatorio è evitare
brusche cadute del precarico, repentini aumenti del postcarico
e le situazioni, anche iatrogene, che deprimono la già scadente
contrattilità.
Pazienti
portatori di pace-maker e dispostitivi antiaritmici
[45]. Noto il motivo per cui è stato
impiantato uno stimolatore endocavitario (tipo di bradiaritmia),
se ne devono conoscere tipo (stimolatore monocamerale o bicamerale)
e modalità di programmazione (stimolazione fissa o demand;
soglia di stimolazione e frequenza di stimolazione). Nel caso
di interventi di chirurgia maggiore in pazienti totalmente
dipendenti da pace-maker oppure di interventi in cui si prevede
estensivo uso di bisturi elettrico, può essere opportuno riprogrammare
lo stimolatore da modalità demand (VVI) a fissa (VOO) ed aumentare
la frequenza di stimolaz ione. Generalmente i pace-maker vengono
impostati a 70-75 battiti/minuto. Tale frequenza tuttavia
può non essere sufficiente a garantire l'incremento di portata
cardiaca desiderabile nel corso dell'intervento chirurgico
e nel postoperatorio. Nel caso in cui la riprogrammazione
non sia possibile, va considerata la possibilità di posizionare
un elettrostimolatore endocavitario flottante.
Un problema particolare è rappresentato dall'interferenza
del bisturi elettrico nel funzionamento del pace-maker e dei
defibrillatori impiantabili.
Per ridurre l'entità dell'interferenza tra pace-maker ed elettrobisturi
è necessario impiegare elettrocauteri bipolari (anziché unipolari),
limitandone l'uso a brevi scariche. Inoltre la piastra isolante
a contatto col paziente deve essere posta il più lontano possibile
dalla scatola del pace-maker evitando che questa sia situata
tra la piastra e il campo operatorio.
I defibrillatori
impiantabili devono essere disattivati prima dell'inizio dell'atto
chirurgico. L'impiego del bisturi elettrico, come pure la
defibrillazione esterna, può infatti danneggiare in modo permanente
il dispositivo antiaritmico; in aggiunta, la corrente generata
dall'elettrobisturi può essere letta dal dispositivo come
"aritmia maligna" e attivare pertanto una defibrillazione
interna inopportuna e pericolosa (innesco di una aritmia ventricolare
maligna).
Pazienti
sottoposti a trapianto cardiaco [46].In
aggiunta alle problematiche legate all'immunosoppressione
(aumentata suscettibilità alle infezioni) e agli effetti collaterali
della terapia (nefrotossicità da clclosporina, depressione
corticosurrenalica da glicocorticoidi), il paziente sottoposto
a trapianto cardiaco presenta problematiche peculiari poichè
il cuore trapiantato è denervato. La denervazione cardiaca
implica che:
< li>mancano
i riflessi barorecettoriali dall’arco aortico e dal seno carotideo;
- il cuore
risponde prontamente alle catecolamine di sintesi ma con
più lentezza alle catecolamine endogene;
- l’aumento
della portata cardiaca avviene per aumento della gettata
sistolica;
- l’alleggerimento
del piano di anestesia non causa tachicardia in via riflessa;
- il paziente
è molto sensibile all’ipovolemia e alle variazioni di postura;
- la somministrazione
di farmaci che agiscono sulla frequenza cardiaca tramite
attivazione del sistema nervoso autonomo (l’atropina, in
primo luogo) non modifica la frequenza stessa.
Pazienti
con protesi valvolari meccaniche.
Le problematiche peculiari in questi pazienti sono in relazione
alla necessità di un’anticoagulazione cronica (vedi: Aspetti
specifici sulla terapia con farmaci attivi sull'emostasi) e
all’elevata suscettibilità alle infezioni della valvola protesica.
I portatori di protesi valvolari devono effettuare la profilassi
antibiotica dell’endocardite infettiva in occasione di procedure
diagnostiche e terapeutiche potenzialmente associate a batteriemia
(incluse le procedure odontoiatriche!) e di fatti flogistici
a possibile eziologia batterica (flogosi delle vie respiratorie,
delle vie urinarie, escoriazioni cutanee) [47].
Anestesia generale vs
anestesia loco-regionale.
L'anestesia
generale e loco-regionale, se correttamente applicate, non
presentano differenze impo rtanti in merito al rispetto della
funzione cardiaca. La scelta di una particolare tecnica quindi
deve essere effettuata in base al tipo di procedura chirurgica,
alle caratteristiche fisiche e psicologiche del paziente,
alla familiarità dell’anestesista con la tecnica prescelta,
all'ambiente in cui avrà luogo il decorso postoperatorio (con
speciale riferimento alla possibilità di trasferire il paziente
in un ambiente intensivo).
Allo stato
attuale delle conoscenze, anche per quanto attiene all’incidenza
di complicazioni cardiovascolari perioperatorie, non pare
esista differenza tra tecniche di anestesia generale e loco-regionale
[48]. Vale la pena di ricordare a questo proposito il lavoro
di Shah [2], che stima pari al 3% l'incidenza di infarto miocardico
dopo interventi in anestesia loco-regionale ed identifica
i pazienti diabetici ed i coronaropatici con ischemia silente
come sottogruppi di pazienti a rischio di complicanze particolarmente
elevato.
Monitoraggio intraoperatorio
Le procedure
chirurgiche di breve durata, eseguibili con anestesia locale,
cioè buona parte di quelle in classe di rischio C, possono
essere gestibili con una semplice MAC (monitored anesthesia
care) e pertanto con ECG, pulsossimetria e pressione arteriosa
non invasiva.
Per gli interventi
in classe di rischio superiore (classi B e A), il monitoraggio
di base deve prevedere la rilevazione in continuo dell'ECG
con cavo a 5 derivazioni e possibilmente 2 derivazioni in
lettura continua simultanea (preferibilmente D2
e V4 o V5), pulsossimetria, capnometria,
rilevazione della temperatura nasofaringea e pressione arteriosa
cruenta. La gestione della volemia non può prescindere dalla
valutazione oraria, oltre che delle perdite ch irurgiche,
della diuresi. Per gli interventi di classe A e buona parte
di quelli in classe B, è opportuna la incannulazione di un
vaso centrale per la valutazione della pressione venosa centrale.
Tecniche supplementari
di monitoraggio (analisi del tratto ST, cateterismo destro,
ecografia transesofagea) devono essere messe in atto in casi
selezionati.
Quanto all'analisi
del tratto ST, è noto che esiste una correlazione positiva
tra episodi ischemici preoperatori ed infarto miocardico perioperatorio
[1]. L'attuale tecnologia di analisi computerizzata dell'ECG
e del tratto ST permette di rilevare gli episodi ischemici
con sensibilità e specificità elevate. E’ auspicabile un impiego
più esteso dell’analisi del tratto ST nei pazienti con angina
stabile a bassa soglia o con angina instabile.
Il cateterismo
cardiaco destro mediante catetere di Swan-Ganz non garantisce
una rilevazione accurata degli episodi di ischemia miocardica
intraoperatori, come dimostrano i bassi valori di specificità
e sensibilità sulle variazioni della pressione di incuneamento
[49]. Tuttavia, il catetere di Swan-Ganz fornisce utili dati
sulla volemia, sulla portata cardiaca e sulle resistenze vascolari.
Il catetere di Swan-Ganz a fibre ottiche in aggiunta consente
la misurazione in continuo della saturazione venosa mista
di ossigeno (SvO2) che, una volta escluse variazioni
importanti di SaO2, di emoglobina e di consumo
di O2 è indicativa di variazioni (nello stesso
senso) della portata cardiaca.
L'impatto dell'impiego
intraoperatorio del cateterismo cardiaco destro sulla gestione
dei pazienti è stato valutato dall'ASA nel 1993. Dagli studi
esaminati non sono emerse evidenze forti per motivare l'impiego
intraoperatorio del catetere di Swan-Ganz [50].
Sul cateterismo dell'arteria polmonare si riaccende periodicamente
la polemica circa il rapporto costo/beneficio. Recenti studi
osservazionali [51] hanno ipotizzato un effetto netto di aumento
della mortalità nel gruppo in cui tale monitoraggio veniva
applicato, nella cura iniziale di pazienti critici nella Unità
di Terapia Intensiva Statunitensi. La comunità scientifica
internazionale, pur auspicando trials controllati sull'argomento
dal momento che pochi dati sono disponibili e le raccomandazioni
sono basate principalmente su deduzioni da lavori non controllati
od opinioni di esperti, non ha risposto favorevolmente all'ipotesi
di moratoria nell'uso del catetere di Swan-Ganz proposto da
alcuni Autori [52]. Limitatamente alla gestione del paziente
critico, l’opportunità del cateterismo cardiaco destro rappresenta
un problema tuttora insoluto per la difficoltà a stabilire
scientificamente l’impatto della procedura sulla sopravvivenza
dei pazienti, essendo a questo fine necessario un campione
di dimensioni considerevoli.
L'American
College of Cardiology in risposta alle numerose richieste
di chiarimento in merito ha prodotto recentemente un documento
validato da una Consensus Conference di esperti e pubblicato
nel settembre 1998. Limitatamente all'indicazione nella chirurgia
non cardiaca l'uso del catetere di Swan-Ganz ha un ruolo riconosciuto
nella guida al trattamento di pazienti selezionati con insufficienza
cardiaca scompensata che devono essere sottoposti a chirurgia
non cardiaca con rischio medio od alto, mentre le opinioni
divergono notevolmente se l'insufficienza è compensata [53].
In sintesi,
il posizionamento intraoperatorio del catetere di Swan Ganz
è utile nei pazienti con depressa funzione contrattile, insufficienza
cardiaca scompensata, in cui la conoscenza del valore di pressione
venosa centrale non è indicativa delle p ressioni di riempimento
delle cavità sinistre e pertanto non può essere impiegata
per guidare la terapia cardiovasoattiva [53]. Esiste invece
una evidenza debole sull’utilità del suo posizionamento negli
interventi caratterizzati da elevato stress emodinamico e
marcato spostamento di fluidi tra il compartimento centrale
ed i comparti tissutali, in assenza di fattori di rischio
cardiovascolari [50]
L'ecografia
transesofagea (TEE) fornisce informazioni qualitative e quantitative
di elevato valore diagnostico sulla volemia, sulla cinesi
globale e segmentaria di entrambi i ventricoli e sull'apparato
valvolare cardiaco.
Per quanto
attiene specificamente alle variazioni della cinesi segmentaria
in concomitanza di episodi ischemici, i riscontri ecocardiografici
sono più numerosi e più precoci rispetto alle corrispondenti
modificazioni elettrocardiografiche. Malgrado al momento attuale
ci sia poca evidenza diretta che la diagnosi di ischemia miocardica
mediante TEE migliori la prognosi, l'ASA nel suo documento
del 1996 conclude che tale evidenza si può desumere indirettamente
dagli studi che dimostrano come un precoce trattamento dell'ischemia
e dell'infarto miocardico migliorino la sopravvivenza [54].
La TEE è una
tecnica consigliabile in pazienti con stenosi aortica critica
in quelli con funzione di pompa depressa e in quelli con elevato
rischio di ischemia miocardica, soprattutto nei casi in cui
l'ECG ha un valore diagnostico limitato per presenza di ritmo
da pace-maker o per blocco di branca sinistro.
Un'applicazione
clinica estensiva dell'ecografia transesofagea è purtroppo
spesso limitata dalla difficoltà a disporre in sala operatoria
dell'apparecchiatura necessaria e di un operatore esperto.
Un ulteriore limite della tecnica è rappresentato dal fatto
che, per ovvie ragioni, la sonda viene inserita dopo l'induzione
della narcosi e rimossa prima dell'estubazione del paziente,
il che non consente di monitorizzare due fasi della narcosi
caratterizzate da elevato stress emodinamico.
Gestione postoperatoria del cardiopatico nell'ambito della
chirurgia non cardiaca
A fine intervento,
la decisione in merito alla collocazione del paziente in recovery
room, terapia intensiva o reparto di degenza dipende da una
serie di parametri, tra cui sono particolarmente importanti
le condizioni generali e la/e patologia/e di base del paziente,
la procedura chirurgica effettuata, il decorso intraoperatorio,
la logistica propria della struttura in cui avverrà il decorso
postoperatorio e il livello di assistenza disponibile.
Indipendentemente
dal luogo (ambiente intensivo, subintensivo o reparto di degenza)
in cui il paziente trascorre il periodo postoperatorio, dal
punto di vista logistico-organizzativo, non lontano dal posto
letto deve essere presente un cardiomonitor con defibrillatore
funzionante. Il letto, inoltre, deve essere provvisto di un
tavolato rigido sotto il torace al fine di assicurare l'efficacia
di un eventuale massaggio cardiaco esterno.
Il rischio
di ischemia miocardica è maggiore nelle prime 48-72 h postoperatorie;
pertanto le misure di monitoraggio dell'ischemia miocardica
devono essere protratte almeno per questo periodo.
Il monitoraggio
delle condizioni cliniche include, oltre che la sorveglianza
del paziente, la rilevazione dei parametri vitali (frequenza
cardiaca, pressione arteriosa, diuresi, saturazione arteriosa
di ossigeno per via transcutanea).Tra i criteri di dimissibilità
del paziente dalle unità di cure intermedie al reparto non
si può omettere la normalità dello sta to neurologico e dell'equilibrio
acido-base, oltre che dei parametri emodinamici ed elettrocardiografici
precedentemente citati.
Come
detto, indipendentemente dalla cardiopatia di base,
il paziente cardiopatico tollera male
le situazioni di aumentato consumo di ossigeno.
Nel postoperatorio
immediato tali situazioni sono fondamentalmente dovute al
brivido e al dolore. Pertanto, un buon riscaldamento corporeo
e una terapia analgesica adeguata costituiscono i presupposti
per un decorso postoperatorio non complicato da problematiche
di natura cardiaca.
Indipendentemente
dall'adeguatezza della terapia analgesica, nel periodo postoperatorio
l'organismo deve affrontare uno stato di stress dovuto in
ogni caso ad un aumentato catabolismo e, talora, ad anemia,
ipovolemia e ipertermia. Nel paziente cardiopatico, data la
spesso limitata la possibilità di adeguare la portata cardiaca
negli stati di stress, il verificarsi di queste situazioni
cliniche comporta il concreto pericolo di una inadeguata perfusione
tessutale. Una cura particolare va quindi posta nell'evitare
gli squilibri volemici e nel trattare gli stati ipertermici
[55].
Quanto alla
relazione tra anemia e ischemia miocardica intra e postoperatoria,
un recente lavoro di Hogue et al ha dimostrato che l'incidenza
di complicanze ischemiche è maggiore nei pazienti anziani
con valori di ematocrito <28%, specialmente se coesiste
tachicardia (evidenza forte) [56]. Questa evidenza motiva
il consiglio di considerare come soglia per la trasfusione
nel paziente critico un valore di emoglobina di 10 g/dl [57].
In molti casi
l’ischemia postoperatoria non è dovuta a turbe emodinamiche
ma ad alterazioni emoreologiche mediate dalla reazione allo
stress, il cui corrispettivo clinico è un sindrome infiammatoria
sistemica con tendenza alla trombofilia. Per questo motivo,
soprattutto nei pazienti cardiopatici, è opportuno riprendere
la terapia anticoagulante e antiaggregante piastrinica non
appena si possa ragionevolmente escludere o considerare ridotto
il rischio di complicanze emorragiche di natura chirurgica.
Ulteriori studi ben condotti potranno in futuro chiarire
alcuni quesiti ancora senza risposte convincenti e perfezionare
in parte queste Raccomandazioni.
Le aree da
investigare maggiormente includono:
- La determinazione
di quali tests non invasivi possono migliorare la stratificazione
nella classe di pazienti a rischio intermedio da sottoporre
a chirurgia non vascolare;
- Le indicazioni
ed il timing alla rivascolarizzazione miocardica (sia chirurgica
che tramite angioplastica percutanea con o senza stent)
prima della chirurgia non cardiaca.
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Tavole
Tabella
1
Richiesta energetica,
espressa in livelli di equivalenti metabolici (MET),
necessaria
allo svolgimento di alcune attività fisiche *. |
1
MET |
Accudire
la propria persona |
|
Mangiare,
vestirsi |
|
Camminare
all’interno della casa |
|
Camminare
in piano per 1-2 isolati a bassa velocità (3.2-4.8
km/h) |
4
MET |
Spolverare
i mobili o lavare i piatti (lavoro domestico poco
faticoso) |
4
MET |
Salire
un piano di scale o camminare adagio in collina |
|
Camminare
in piano a velocità sostenuta (6.4 km/h) |
|
Fare
una breve corsa |
|
Lavare
i pavimenti o spostare i mobili (lavoro domestico
faticoso) |
|
Svolgere
attività sportiva o ricreativa che comporta un impegno
fisico moderato: golf, bowling, ballo, tennis doppio |
Oltre
10 MET |
Svolgere
attività sportiva o ricreativa che comporta un impegno
fisico notevole: nuoto, sci, calcio, basket, tennis
singolo |
*
Modificato dalle linee guida dell’ACC/AHA Task Force [4].
Tabella 2
Cardiac
Risk Index di Goldman modificato da Detsky |
Variabile |
Punteggio |
Età
> 70 anni |
5 |
Infarto
miocardico nei 6 mesi precedenti l'intervento |
10 |
Infarto
miocardico oltre i 6 mesi precedenti l'intervento |
5 |
Angina
in classe III della Società Cardiovascolare Canadese |
10 |
Angina
in classe IV della Società Cardiovascolare Canadese |
20 |
Edema
polmonare nella settimana precedente l'intervento |
10 |
Edema
polmonare acuto in anamnesi |
5 |
Ritmo
cardiaco non sinusale o con extrasistolia atriale |
5 |
Più
di 5 battiti extrasistolici ventricolari |
5 |
Stenosi
aortica critica |
20 |
Condizioni
generali scadenti ** o allettamento |
5 |
Intervento
in emergenza |
10 |
*
Classificazione dell'angina secondo la Società Cardiovascolare
Canadese: 0=non angina; I=angina da sforzo intenso; II=angina
da sforzo moderato; III=angina dopo un piano si scale (o meno)
a passo normale; IV= angina per ogni minima attività fisica.
** PaO2<60 mm Hg; PaCO2 >50 mm Hg; potassiemia <3
mEq/l; azotemia >300 mg/dl; creatininemia >3 mg/dl.
Tabella
3
Cardiac
Risk Index di Goldman modificato da Detsky: classi di
rischio |
Punteggio |
Classe |
P
robabilità di complicanze cardiache maggiori |
0
-15 |
I |
0-
15% |
20
- 30 |
II |
20-30% |
>
30 |
III |
>
60% |
Tabella 4
Indici
di basso rischio |
secondo
Eagle et al. [11] |
secondo
Vanzetto et al. [12] i> |
Età
> 70 anni |
Età
> 70 anni |
Anamnesi
di angina |
Anamnesi
di angina |
Diabete
mellito |
Diabete
mellito |
Aritmie
ventricolari in anamnesi |
Onde
Q patologiche all'ECG |
Onde
Q patologiche all'ECG |
Anamnesi
di scompenso cardiaco |
|
Anamnesi
di infarto miocardico |
|
Alterazioni
dell'ST all'ECG standard |
|
Ipertensione
con criteri ECG di ipertrofia ventricolare severa |
Tabella 5
Farmaci di comune impiego nel cardiopatico |
a.
Farmaci attivi sul sistema cardiovascolare |
Antianginosi |
b
-bloccanti; calcio-antagonisti; nitroderivati; |
Antipertensivi |
ACE-inibitori;
a2-agonisti; diuretici; |
Antiaritmici |
di
classe Ia: chinidina, disopiramide, procainamide;
di
classe Ib: lidocaina, mexiletina, tocainide
di
classe III: amiodarone; |
Inotropi |
Digitale
amine
simpaticomimetiche
inibitori
della fosfodiesterasi III |
b.
Farmaci attivi sull’emostasi |
Anticoagulanti |
dicumarolici;
eparine; |
Antiaggreganti |
acido
acetilsalicilico; dipiridamolo;
indobufene; picotamide monoidrata;
ticlopidina |
Tabella 6
Fattori
da considerare nel paziente in terapia anticoagulante
orale (TACO) da sottoporre a chirurgia non cardiaca. |
a.
Fattori inerenti alla cardiopatia: motivo per cui
il paziente è in TACO. |
Fibrillazione
atriale (unico fattore) |
Il
rischio di sanguinamento facendo l'intervento in scoagulazione
è maggiore del rischio di stroke: la sospensione dell'AC
può essere accettabile e va ponderata in ogni singolo
caso. |
Valvulopatia
reumatica su mitrale nativa, con atriomegalia sinistra
e/o fibrillazione atriale |
La
TACO cronica è necessaria; la terapia eparinica perioperatoria,
limitata ai periodi in cui INR<2, va riservata
ai pazienti ad alto rischio di complicanze emboliche
(stroke nel mese precedente la chirurgia) a dispetto
del maggior sanguinamento. |
Protesi
valvolare |
Biologica:
la TACO è necessaria solo nei primi 3 mesi dopo impianto.
Meccanica:
anticoagulazione obbligatoria per sempre: il passaggio
alla terapia eparinica nel perioperatorio è necessario. |
b.
Fattori inerenti alla chirurgia non cardiaca nel portatore
di protesi valvolari meccaniche |
Chirurgia
maggiore, indifferibile (es:
politramatizzato con emorragia interna) |
Vitamina
K1 e.v. (2.5-5 mg, lentamente) ed eventualmente
trasfusioni di plasma fresco congelato per contrastare
l'emorragia |
Chirurgia
maggiore, differibile di 24 h |
Vitamina
K1 (1 mg, p.o. oppure 0.5 -1 mg i.v.) generalmente
riduce l'INR da ~ 4.0 a ~ 1.5 in ~ 24 h nei pazienti
in terapia con warfarina; nel postoperatorio, trattamento
standard (vedi testo) |
Chirurgia
maggiore, elettiva |
Prima
dell'intervento, interruzione della TACO e sostituzione
con terapia eparinica in infusione endovenosa (vedi
testo) |
Chirurgia
minore, elettiva (es:
avulsione dentaria, biopsia cutanea) |
Paziente in terapia
con acenocumarolo:
stop
Sintrom per ~ 24 h (così che 1.5<INR<2) prima
della procedura; subito dopo la fine della p rocedura
assumere la dose standard di farmaco.
Paziente
in terapia con warfarina:
unica
dose orale di vitamina K1 (*) da assumere
36 h prima della procedura continuando ad assumere
la dose standard di warfarina; al momento della
procedura, INR sarà pari a ~ 1.75. |
*
Formula per calcolare la dose di vitamina k1 da
assumere p.o. così da portare l'INR al momento della procedura
al valore di 1.75: 16 - [17 x (1.75/INR in terapia)], dove
INR in terapia è compreso tra 2.5 e 4.9
Tabella
7
Parametro |
Eparine |
Anticoagulanti
orali |
Farmaci |
E.
non frazionata sodica e calcica (ENF)
E.
a basso peso molecolare (EBPM) |
Acenocumarolo
(SintromÒ ) Warfarina
(CoumadinÒ ) |
Meccanismo
dell'azione anticoagulante |
ENF:
Promuove in modo prevalente l'inibizione della
trombina da parte dell'antitrombina III (che non
deve essere insufficiente!); EBPM:
Inibiscono in modo prevalente il fattore X attivato
e quindi la conversione della protrombina in
trombina (il livello di antitrombina non deve
essere insufficiente!) |
Bloccano
la formazione della vitamina K in forma ridotta,
cofattore per l'attivazione: -
dei fattori della coagulazione II, VII, IX ,
X;
-
della proteina C e S |
Valutazione
dell'effetto |
ENF:
variazione dell'aPTT ratio EBPM:
test per uso clinico non diffuso |
Variazione
dell'attività protrombinica espressa come INR |
Anticoagulazione |
ENF:
2.0<aPTT ratio<2.5 |
2.5<INR<4.0 |
Via
di somministrazione |
ENF
sodica: endovenosa (boli o infusione)
ENF
calcica: sottocutanea, 2-3 boli/die |
Orale
(unica somministrazione giornaliera) |
Problemi
legati alla via di somministrazione |
L'assorbimento
dal sottocute dipende dal trofismo, dalla perfusione
e dalla temperatura cutanea |
L'assorbimento
orale è relativamente prevedibile, nel singolo
paziente, solo in
presenza di un'attività peristaltica normale
e di un'alimentazione enterale regolare per
quantità e qualità (interazioni con alim enti) |
Latenza
dell'effetto dopo
inizio della terapia |
ENF
e.v.: azione immediata ENF
s.c.:30'-120' (perfusione e temperatura) |
Sintrom:
inizio dopo 8-12 h; picco: 24-36 h Coumadin:
inizio dopo 8-12h; picco:36-72 h |
Durata
dell'effetto dopo sospensione della terapia |
ENF
e.v.: 3-4 h (paziente normotermico) ENF
s.c.: 12-14 h |
Sintrom:
24-36 h Coumadin:
2-5 giorni |
Antagonizzazione
dell'effetto |
ENF:
protamina solfato, nella dose di 1mg/100 U I di
eparina (efficacia immediata) EBPM:
non esiste antagonista; volendo normalizzare
la coagulazione, trasfusione di plasma fresco
congelato (efficacia immediata) |
Non
esiste antagonista; volendo accelerare la normalizzazione
dell'INR:
- vitamina
K1, p.o. oppure e.v. (efficace in circa 24
h)
- trasfusione
di plasma fresco congelato (efficacia immediata)
|
Complicanze
[35] |
Sanguinamento
Osteoporosi
(dopo uso prolungato, che è inopportuno)
Trombocitopenia
indotta dall’eparina [58] |
Sanguinamento
Necrosi
cutanea da warfarina |
. Anticoagulanti.
Figura
1. Algoritmo diagnostico dell'AHA, nella sua forma
semplificata proposta da Sirieix et al., modificata [59].
|