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INFEZIONI A RISCHIO MALFORMATIVO FETALE: ROSOLIA, CYTOMEGALOVIRUS E TOXOPLASMOSI

D. PALADINI, T. MORRA, P. MARTINELLI, C. NAPPI
Dipartimento di Ginecologia, Ostetricia e Fisiopaltologia della Riproduzione Umana, Università di Napoli "Federico II"

Infezione da virus della rosolia 

Definizione e prevalenza

Il virus della rosolia è un virus ad RNA non correlato sierologicamente ad altri patogeni virali noti e l’uomo ne rappresenta l’unico ospite. Nei paesi occidentali, il 5-20% circa delle donne in età riproduttiva è suscettibile al virus. In caso di esposizione al virus, il tasso di infezione è del 100% per familiari conviventi o in caso di comunità chiuse. In epoca post-natale, l’infezione è asintomatica nel 25-50% dei casi.

Diagnostica

Delle varie tecniche atte ad evidenziare nel siero gli anticorpi anti-rosolia, il test di inibizione dell’emoagglutinazione (Hemagglutination Inhibition Test, HAI) rappresenta il gold standard ed allo stesso tempo il parametro di valutazione della sensibilità di eventuali nuovi metodi di diagnosi di infezione. Tuttavia, dal momento che tale test è alquanto indaginoso, la diagnosi sierologica è attualmente eseguita routinariamente mediante test ELISA (Enzyme-Linked Immuno Sorbent Assay), che permette una più rapida quantificazione del titolo anticorpale. A questo proposito, è necessario sottolineare che vi è scarsa correlazione tra i diversi kit per test ELISA disponibili sul mercato. Pertanto, nel caso in cui si debba eseguire una valutazione longitudinale dei titoli anticorpali è bene che il test venga ripetuto sempre nello stesso laboratorio, sì da utilizzare sempre lo stesso tipo di kit. In caso di infezione, le IgM compaiono a brevissimo tempo dal contatto con il virus, raggiungono un picco a 7-10 giorni e persistono in genere fino a 4 settimane dalla comparsa dell’esantema (quando presente). Talvolta, però, le IgM possono persistere sino a 60 giorni, rendendo l’identificazione del periodo del contagio alquanto difficoltosa. Le IgG compaiono nel siero a partire dalla 2a settimana e persistono indefinitamente conferendo l’immunità. Una valutazione sierologica in caso di esposizione al virus è utile anche per le donne già immuni, dal momento che l’evenienza di una reinfezione con trasmissione verticale, pur rara, è stata documentata, anche se in questo caso l’incidenza di danni fetali anche per infezione nel I trimestre è alquanto bassa (1). Quando avviene, la reinfezione materna colpisce di solito donne vaccinate (vedi Profilassi) in cui il titolo anticorpale è basso (1,2), anche se in un caso è stata riportata reinfezione materna con trasmissione verticale dopo infezione primaria accertata (3). Nel feto, IgM specifiche sono state evidenziate a partire dalle 22 settimane di gestazione ed il loro riscontro permette la diagnosi certa di infezione fetale mediante cordocentesi. Prima delle 22 settimane, l’assenza di IgM specifiche su sangue fetale non rappresenta assolutamente un indice di non infezione.

Nonostante nella pratica clinica la valutazione sierologica continui a rappresentare la base della diagnosi di rosolia sia congenita che acquisita, recentemente diverse tecniche di biologia molecolare, tra cui soprattutto la PCR, hanno permesso di evidenziare con elevata accuratezza diagnostica genomi virali in vari tessuti sia neonatali che fetali (amniociti e sangue fetale 4-6). Al contrario, relativamente poco utile si è rivelata la valutazione mediante PCR su villi coriali dal momento che è stata riscontrata presenza del virus sia in caso di assente infezione fetale (infezione limitata alla placenta) che in caso di infezione fetale accertata (4).

Infine, è da citare per completezza anche l’isolamento del virus da cellule in coltura, che però, pur rappresentando una tecnica altamente specifica, è alquanto indaginosa e lenta.

Trasmissione verticale

L’infezione fetale può avvenire in qualsiasi momento della gestazione e non vi è differenza se l’infezione materna è stata sintomatica o meno. La sua incidenza è inversamente proporzionale all’epoca gestazionale. In particolare, il rischio di infezione fetale è massimo (54-100%) nei casi in cui il rash e/o la sieroconversione materna si verificano tra la 3a e la 6a settimana dall’ultima mestruazione, per poi attestarsi intorno al 31-44% se la sieroconversione materna avviene tra la 13a e la 18a settimana. Dopo la 18a settimana, il rischio di infezione fetale è relativamente basso e le sequele sono lievi o addirittura sub-cliniche (7).

 Danni fetali

Alla nascita, le anomalie più frequentemente descritte nell’ambito della sindrome da rosolia congenita sono rappresentate da lesioni oculari (cataratta, microftalmia, glaucoma, corioretinite), cardiache (dotto arterioso pervio, stenosi polmonare, difetto inter-atriale ed inter-ventricolare) e cerebrali (sordità neurosensoriale, microcefalia, ritardo mentale). Sono inoltre spesso presenti ritardo di accrescimento, epato-splenomegalia e trombocitopenia. I casi lievi di sindrome da rosolia congenita (quelli da infezione dopo le 18 settimane di gestazione e/o da reinfezione materna) possono avere un decorso sub-clinico e sfuggire alla diagnosi. Di tutte queste lesioni, in utero è possibile diagnosticare solo alcune cardiopatie congenite (non la pervietà del dotto di Botallo ed alcuni DIA) ed alcuni casi di cataratta e di microftalmia (quando severi). Purtroppo, l’ecografia non è di nessun ausilio nel riscontro delle lesioni cerebrali da rosolia, in quanto sordità e ritardo mentale non sono diagnosticabili e la microcefalia si sviluppa, di solito, solo nel III trimestre di gestazione.

Management clinico (Tab. I)

In caso di sieroconversione materna accertata nelle prime 7 settimane di gestazione, deve essere offerta l’opzione dell’interruzione di gravidanza, dal momento che la possibilità che si verifichino danni fetali severi, come esposto precedentemente, è elevatissima. Dalle 8 settimane in poi, è possibile utilizzare la diagnostica prenatale invasiva (prelievo dei villi coriali (CVS), amniocentesi e cordocentesi), pur con le limitazioni espresse a proposito dei villi coriali (non rispecchiano lo stato fetale) e della valutazione sierologica su sangue fetale (le IgM specifiche compaiono dopo le 22 settimane). Pertanto, una prima possibilità è quella della valutazione sierologica su sangue fetale dopo le 22 settimane. Tuttavia, per quanto concerne questo tipo di diagnostica vi sono due considerazioni da fare: in primo luogo, il termine per effettuare un’interruzione di gravidanza secondo l’articolo 6 della legge 194 è rappresentato dalla fine della 25a settimana e, pertanto, la cordocentesi per la ricerca di IgM fetali specifiche permetterebbe una diagnosi solo nella finestra 22-24 settimane. Inoltre, come espresso precedentemente, l’incidenza di gravi danni fetali è relativamente bassa per sieroconversione materna dopo le 18 settimane di gestazione. Pertanto, la sierologia fetale, che pur mostra un’elevata accuratezza diagnostica, mostra evidenti limiti temporali di utilizzo. Diverso è il discorso per ciò che concerne la ricerca dell’RNA virale mediante PCR. Questa rappresenta una metodica molto sensibile e specifica (4-6) che può essere applicata sia su amniociti che su leucociti fetali, fornendo una risposta in tempi brevissimi (24-48 ore). L’unico problema è che, essendo una tecnica molto sensibile ed allo stesso tempo delicata, se non utilizzata correttamente può dar luogo a diagnosi errate. Pertanto, è auspicabile che tale tecnica venga in breve tempo standardizzata ed utilizzata solo nei centri di riferimento ove essa viene eseguita secondo protocollo. In ogni caso, qualora venga accertata una sieroconversione materna in gravidanza, è sempre necessario inviare quanto prima la paziente ad un centro di riferimento per un corretto management.

Profilassi dell’infezione rubeolica in gravidanza

Tale profilassi prevede due livelli di azione. Il primo livello è rappresentato dai programmi governativi di vaccinazione (8,9). Attualmente, una delle strategie più utilizzate, e sicuramente la più efficace anche se più costosa, è rappresentata dalla somministrazione a tutti i bambini sia maschi che femmine del vaccino combinato contro rosolia, morbillo e parotite in doppia somministrazione (12-18 mesi e 4-12 anni). In alternativa, o in aggiunta (9), è possibile vaccinare solo le donne in epoche filtro (vaccinazione obbligatoria in età scolare, vaccinazione dopo la gravidanza, categorie a rischio), anche se in questo modo non si evitano le reinfezioni. Anche in Italia, la circolare n. 13 del 6-6-95 del Ministero della Sanità ha autorizzato il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) ad attuare "in regime di completa esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria (senza neanche il pagamento del ticket) le campagne di prevenzione vaccinale relative a morbillo-rosolia-parotite". In particolare, l’obiettivo è quello di eliminare queste tre malattie, conferendo una copertura immunitaria al 90% della popolazione. Ciò prevede l’offerta attiva (per chiamata) e la somministrazione del vaccino trivalente a tutti i nuovi nati al XV mese di vita con richiamo al XII anno. Inoltre, parallelamente a questo programma, al fine di ottenere in minor tempo il raggiungimento dell’obiettivo, il SSN ha previsto l’offerta attiva della vaccinazione alle seguenti categorie di donne: tutte le bambine in età pre-pubere, attraverso la copertura vaccinale annuale di una singola classe di età filtro, preferibilmente nell’ultimo anno delle scuole elementari; tutte le adolescenti non vaccinate al 12° anno di età, in occasione della somministrazione del vaccino anti-epatite B; tutte le donne in età fertile, non gravide e che non abbiano programmato una gravidanza nel trimestre successivo, con priorità per le puerpere non protette, che vengano in contatto con le strutture sanitarie, da vaccinarsi presso le stesse strutture; le donne che si sposano, identificate tramite le pubblicazioni affisse presso i Municipi. In tal modo si spera di eliminare completamente la rosolia quale causa di morbilità materno-infantile nei prossimi anni.

Il secondo livello di azione è quello corrispondente alla propria pratica clinica. In quest’ottica, è sempre bene: 1) richiedere sempre una valutazione sierologica in epoca pre-concezionale a tutte le donne e prescrivere loro il vaccino in caso di suscettibilità (il vaccino va somministrato come precauzione sotto terapia anticoncezionale, anche se non sono stati riportati danni fetali per somministrazione accidentale in gravidanza); 2) durante una gravidanza, richiedere gli esami del gruppo TORCH quanto prima, possibilmente a 5-7 settimane, per avere un parametro precoce di riferimento e far ripetere la sierologia specifica (IgG ed IgM) mensilmente, specialmente nelle categorie a rischio (insegnanti, pluripare, ecc.).

Infezione da citomegalovirus (CMV)

Definizione e prevalenza

Il CMV è un virus a DNA della famiglia degli Herpes virus. Il 50-80% delle donne in età riproduttiva ha avuto contatto con il virus e, pertanto, è immune. Il tasso di sieropositività per CMV aumenta con l’età della donna e la parità. In un’indagine condotta in Italia (10), la sieroprevalenza per CMV è stata del 71%, con il 2,3% di sieroconversione in gravidanza e lo 0,6% di infezione fetale. La sieroprevalenza passava dal 28% a 2 anni di età al 95% nella fascia 45-54 anni. L’infezione è asintomatica nella maggior parte della popolazione sana, ma il virus viene spesso eliminato per lungo tempo con i vari liquidi biologici (saliva, urine, secrezioni vaginali, liquido seminale, latte e sangue) che, pertanto, rappresentano la primaria fonte di contagio.

Diagnostica

Il gold standard per la diagnosi di infezione da CMV è rappresentato dall’isolamento del virus in colture cellulari. Tuttavia, come già accennato a proposito della rosolia, tale tipo di tecnica è lenta e costosa e, pertanto, nella pratica clinica, soprattutto in gravidanza, quando una risposta celere è di fondamentale importanza per un corretto management materno-fetale, si fa riferimento alla valutazione quantitativa dell’antigenemia mediante ELISA o IFA (Immuno-Fluorescent Assay). In alternativa, la determinazione del DNA virale mediante PCR, messa a punto negli ultimi anni, permette anch’essa una valutazione quantitativa della carica virale con un’attendibilità che supera il 90% e con una sensibilità altrettanto elevata (11), che però rappresenta anche il limite di questa metodica, laddove talvolta la positività per DNA virale non corrisponde sempre al dato clinico. Pertanto, anche in questo caso, come per la rosolia, è opportuno che la valutazione mediante PCR e tecniche correlate sia sempre effettuata presso i centri di riferimento di II livello per gravidanza a rischio.

 Trasmissione verticale

Al contrario di quanto accade per la maggior parte delle infezioni in gravidanza, per le quali la trasmissione verticale con possibili sequele fetali avviene solo per l’infezione primaria e quasi mai nelle reinfezioni, il coinvolgimento fetale da CMV può avvenire sia nel corso di una primoinfezione materna che in caso di riattivazione dell’infezione (il CMV è un herpes virus e, pertanto, si comporta come gli altri virus della stessa classe, andando incontro a riattivazioni periodiche di una pregressa infezione).

Danni fetali

In caso di infezione primaria, il 30-40% delle donne trasmette il virus al proprio feto ed il 10% di questi feti infetti andrà incontro alla nascita a morte o a gravi sequele cerebrali con ritardo mentale (7). Del restante 90% dei feti infetti che sono però asintomatici alla nascita, il 5-15% svilupperà tardive sequele neuro-sensoriali che per lo più consistono in sordità di grado medio elevato (12). L’epoca gestazionale alla quale avviene l’infezione materna non influisce sull’incidenza della trasmissione verticale ma, probabilmente, sulla gravità delle sequele, dal momento che la maggior parte dei neonati sintomatici nascono da donne che hanno contratto la primoinfezione nel I trimestre (12). Delle donne IgG-positive per CMV, solo l’1-2% va incontro a reinfezione in gravidanza, ma considerando l’elevata prevalenza dell’infezione, questa evenienza è relativamente frequente. Fortunatamente, le IgG materne, che oltrepassano la barriera placentare, sembrano fornire adeguata protezione al feto. In un recente studio, è stato paragonato un gruppo di 127 feti nati da donne con primoinfezione ad un gruppo di 64 feti nati da madre con reinfezione. Alla nascita, il 18% dei neonati del I gruppo e nessun neonato del II gruppo (reinfezione materna) era sintomatico. A quasi 5 anni di follow-up medio, il 25% dei neonati asintomatici (alla nascita) del I gruppo (primoinfezione materna) sviluppava una o più sequele tardive contro il 18% dei neonati del II gruppo (reinfezione). Tuttavia, sequele cerebrali gravi erano presenti a 5 anni solo nei neonati con malattia da CMV da primoinfezione materna (13% di ritardo mentale), mentre nessun neonato che aveva contratto l’infezione in corso di reinfezione materna sviluppava ritardo mentale. Sempre a 5 anni, l’incidenza di ipoacusia medio-grave era del 23% vs 5%, rispettivamente (13).

Per ciò che concerne i danni fetali evidenziabili in utero mediante ecografia (14), questi sono rappresentati da ritardo di crescita intrauterina (IUGR), microcefalia, calcificazioni cerebrali, ventricolomegalia, ascite, iperecogenicità delle anse intestinali, cardiomegalia (miocardite). Anche l’epato-splenomegalia può essere talvolta evidenziata in utero.

Management clinico (Tab. II)

Dal momento che l’infezione materna è inapparente, solo ripetuti prelievi in donne IgG-negative riescono ad identificare un’eventuale sieroconversione durante la gravidanza, che rappresenta una delle due indicazioni principali alla diagnosi prenatale di infezione da CMV. L’altra indicazione è costituita dal riscontro ecografico di alcune anomalie fetali che più spesso sono associate ad infezione da CMV (vedi sopra). Tali anomalie, se presenti nei feti a rischio di trasmissione verticale, rappresentano un segno quasi certo di infezione fetale. Al contrario, la loro assenza non esclude assolutamente la presenza del virus nel distretto fetale. Dall’analisi dei vari studi pubblicati in letteratura, emerge che attualmente l’amniocentesi eseguita dopo le 20-21 settimane, eventualmente ripetuta a distanza di una settimana, rappresenta la tecnica più affidabile. Sul liquido amniotico sia l’isolamento del virus da coltura che la PCR hanno mostrato un’accuratezza diagnostica elevata, che, a parità di risultati, fa preferire il secondo metodo per la maggior rapidità ed il minor costo. Inferiore attendibilità (25-70%) è data dalla valutazione su sangue fetale delle IgM specifiche di produzione fetale. Prima delle 21 settimane l’attendibilità delle varie metodiche sopra riportate è ancora controversa: un’amniocentesi negativa prima di tale epoca gestazionale non rappresenta un criterio affidabile di assente infezione fetale, anche se una positività, al contrario, depone inequivocabilmente per un avvenuto passaggio trans-placentare. Il problema tutt’altro che trascurabile che sorge a questo punto è che, in caso di accertata infezione fetale, nessuna delle tecniche menzionate ha valore prognostico. In altri termini, non è ancora possibile determinare quali tra i feti infetti sarà sintomatico alla nascita e quale no. Gli unici parametri che hanno mostrato qualche valore prognostico sono rappresentati dalla trombocitopenia e dalla valutazione degli enzimi epatici fetali sul sangue. Allo stato attuale, solo il riscontro ecografico di anomalie fetali (ascite, calcificazioni cerebrali, iperecogenicità delle anse intestinali, ecc.) rappresenta segno pressoché certo di compromissione severa feto-neonatale.

Pertanto, la valutazione generale deve tener conto in primo luogo del tipo di infezione materna (primoinfezione o riattivazione), che rappresenta uno dei principali fattori prognostici. Prima delle 21 settimane, in assenza di chiari segni ecografici di compromissione fetale che depongano per l’avvenuta infezione, si può tentare un’amniocentesi con PCR (eventualmente ripetendo il prelievo dopo una settimana), avendo ben presente che un risultato negativo non è conclusivo. Dalle 22 settimane in poi, l’attendibilità della stessa amniocentesi (PCR) e della cordocentesi (ricerca delle IgM fetali) è massima. Per ciò che concerne il management della gestazione, l’opzione dell’interruzione di gravidanza deve essere offerta in caso di chiara evidenza ecografica di malformazione CMV-correlata (elevatissima incidenza di sequele gravi alla nascita, con il 30% di mortalità). In caso di infezione accertata con tecniche invasive ed in assenza di segni ecografici, tale opzione va discussa in sede di counselling, valutando quale fattore prognostico principale il tipo di infezione (primaria o recidiva) e sottolineando che, comunque, non è possibile prevedere se un feto con infezione accertata ma senza segni ecografici di compromissione sarà sintomatico o meno alla nascita. Per infezioni materne tardive (oltre le 24 settimane), esiste la possibilità, almeno teorica, della terapia farmacologica con gancyclovir. Infatti, nell’adulto immunodepresso con infezione da CMV e nel neonato sintomatico, l’utilizzo di questo antivirale ha permesso di ottenere buoni risultati nel controllo dell’infezione sia da solo che in associazione ad immunoglobuline iperimmuni anti-CMV (7). Non esiste però a tutt’oggi alcuno studio pubblicato di farmacocinetica e di tossicità materno-fetale. Pertanto, l’utilizzo del gancyclovir nel trattamento di infezione fetale è da ritenersi attualmente assolutamente sperimentale. Non è noto se l’utilizzo di immunoglobuline iperimmuni per attenuare l’entità del danno d’organo in utero sia efficace. Sicuramente, le IgG oltrepassano la barriera placentare e, pertanto, sono disponibili nel compartimento fetale; tuttavia, che esse siano realmente capaci di ridurre le sequele da CMV nel feto è un’ipotesi attraente ma ancora da dimostrare.

Profilassi dell’infezione da CMV in gravidanza

Esiste un vaccino contenente virus vivo attenuato (Towne) che è stato utilizzato con successo in pazienti a rischio (AIDS e trapiantati), conferendo un’immunità sovrapponibile a quella post-infezione. Sono attualmente in corso trials clinici che hanno come obiettivo quello di immunizzare le donne CMV-negative, allo scopo di prevenire l’infezione feto-neonatale. Inoltre, è in corso di sperimentazione un vaccino contenente gli antigeni glicoproteici di superficie che appare ancora più promettente.

Infezione da Toxoplasma gondii

Definizione e prevalenza

Il Toxoplasma gondii è un protozoo. La malattia si contrae entrando in contatto con le oocisti contenute nelle feci di gatto, nella carne infetta cruda o poco cotta, nella verdura e nella frutta non ben lavata. L’infezione acuta è asintomatica nel 90% dei casi, mentre il restante 10% sviluppa solo lievi adenopatie retrocervicali. Sia negli USA che in Italia (15), il 60% della popolazione è suscettibile di infezione.

Diagnostica

La diagnostica laboratoristica è alquanto articolata e si basa fondamentalmente su quattro tipi di test: a) isolamento del parassita da sangue e/o liquidi organici mediante coltura cellulare e, soprattutto, inoculazione nel topo; b) identificazione degli antigeni del Toxoplasma mediante test ELISA, IFA, ecc.; c) valutazione sierologica di anticorpi specifici (IgM, IgG, IgA, IgE) mediante dye test, agglutinazione, fluorescenza indiretta o ELISA; d) identificazione del genoma protozoario mediante PCR. Dal numero di test diagnostici disponibili ben si comprende la complessità dell’inquadramento della toxoplasmosi in gravidanza. Un primo dato è che l’isolamento del protozoo mediante inoculazione nel topo è il metodo più sicuro ma anche il più lento e costoso per una diagnosi di toxoplasmosi. Ai fini della datazione dell’infezione materna, un punto da tener presente quando si valuta la risposta anticorpale è che le IgM, che dovrebbero costituire la spia di infezione recente, possono persistere anche per 6 mesi e più dall’iniziale contatto con il parassita. Relativamente d’aiuto può essere la valutazione dell’avidità per IgA ed IgE mediante test ISAGA (Immuno Sorbent Agglutination Assay) quale spia più attendibile di infezione recente (16). Il tutto è reso ancor più complicato dal fatto che lo stesso test può mostrare diversa sensibilità in stadi diversi dell’infezione. Ben si comprende, pertanto, come per la toxoplasmosi sia ancora più importante far riferimento ad un centro di II livello che disponga di un laboratorio affidabile per la valutazione dei vari test disponibili.

Anche per ciò che concerne la diagnosi di infezione fetale, sono innumerevoli gli esami eseguibili su sangue fetale e su amniociti, la cui accuratezza diagnostica in uno dei centri mondiali di riferimento per la toxoplasmosi materno-fetale è riportata in Tabella III (17). Come è possibile osservare, non esiste un singolo test che permetta una diagnosi certa di infezione fetale, anche se il gruppo di lavoro francese ha riportato ottimi risultati (97%) con PCR verso il gene B1 del Toxoplasma ricercato sul liquido amniotico (17). Tuttavia, è necessario sottolineare che tali risultati sono stati prodotti solo dalle unità all’avanguardia nel settore e che la riportata sensibilità del 97% non è assolutamente applicabile allo stesso metodo eseguito da qualsiasi altra unità laboratoristica, per la discreta incidenza di falsi positivi, la difficoltà ad eseguire una tecnica molto sensibile e per l’utilizzo, in alcuni casi, di probes DNA diversi. Solo quando i brillanti risultati riportati dal gruppo francese saranno appannaggio di tutte le unità diagnostiche, tale test potrà essere considerato il gold standard per la diagnosi prenatale di infezione fetale da Toxoplasma. Ciò che invece è emerso negli ultimi 2 anni da parte di più Autori (17-19), è che i risultati ottenuti sul sangue fetale sono pressoché sovrapponibili a quelli ottenuti sul liquido amniotico, sia per ciò che concerne la sierologia (ad esclusione, ovviamente, di enzimi ed emocromo) sia per ciò che concerne l’isolamento del parassita e, pertanto, la tendenza attuale è quella di abbandonare la cordocentesi a favore della più semplice amniocentesi, che è anche gravata da una relativamente minore incidenza di aborto.

Trasmissione verticale

La trasmissione verticale avviene solo durante la fase parassitemica e, pertanto, solo durante la fase acuta della malattia. I due fattori principali che determinano il tasso di trasmissione materno-fetale sono rappresentati dall’epoca gestazionale al momento della sieroconversione materna e dalla somministrazione o meno di terapia antibiotica specifica. In particolare, il rischio di infezione fetale è direttamente proporzionale all’epoca gestazionale. In un recente studio nel quale tutte le donne ricevevano terapia antibiotica specifica alla sieroconversione, il tasso di trasmissione verticale è stato dell’1,2% per infezione materna in periodo peri-concezionale, del 4,5% per infezione materna nelle settimane 6-16, del 17,3% se l’infezione avveniva nel periodo 17-20 settimane e del 28,9% in caso di infezione materna più tardiva (20). Al contrario, la gravità dell’infezione fetale è maggiore in caso di infezione materna precoce (I ed inizio II trimestre); le infezioni tardive causano infatti spesso forme neonatali sub-cliniche. In assenza di terapia, il tasso di trasmissione verticale è molto superiore (20% nel I trimestre, 30% nel II trimestre, ben 67% nel III trimestre).

Danni fetali

Alla nascita, esistono tre forme riconosciute di infezione congenita da Toxoplasma. La forma severa prevede la presenza di evidenti lesioni cerebrali (idrocefalia, microcefalia, calcificazioni, necrosi zonale) od oculari (corioretinite con deficit grave del visus sino alla cecità); nella forma clinicamente benigna sono presenti corioretinite periferica (senza o con solo lieve deficit del visus) e calcificazioni cerebrali con esame neurologico normale. Le forme frustre, ad andamento sub-clinico, sono riconoscibili solo dalla sierologia. Le lesioni da toxoplasmosi fetale riconoscibili in utero mediante ecografia sono costituite da: alcune delle lesioni cerebrali [idrocefalia, calcificazioni focali da necrosi (ma non in tutti i casi), microcefalia (che però insorge tardivamente)], calcificazioni epatiche, ascite e versamenti nelle altre sierose. La placenta, se infetta, talvolta diviene ispessita ed in alcuni casi iperecogena. Sul ruolo del monitoraggio ecografico in caso di presunta o accertata infezione fetale da Toxoplasma, è importante tenere presente quanto riportato dal gruppo francese di Daffos (21), che ha analizzato ecograficamente 89 feti con infezione accertata da Toxoplasma. Un primo dato che emerge è che l’incidenza di lesioni ecograficamente evidenziabili è stata del 78% nei feti infetti la cui madre ha contratto la toxoplasmosi nel I trimestre e del 20% nei feti infetti la cui madre aveva contratto l’infezione nel II trimestre, mentre nessuno dei feti con toxoplasmosi accertata la cui madre aveva contratto l’infezione nel III trimestre mostrava alcuna anomalia ecografica. Un secondo dato di fondamentale importanza è che l’idrocefalia rappresenta solo una delle possibili lesioni cerebrali del Toxoplasma; di conseguenza, l’assenza di tale lesione in un feto con infezione materna precoce non riveste alcun significato prognostico. Un’altra considerazione importante emerge dall’analisi dei 33 casi (degli 89 valutati = 37%) in cui è stata eseguita interruzione di gravidanza. Una o più anomalie ecografiche fetali erano presenti in 27 casi [in 18 (infezione materna nel I trimestre) esse erano già presenti al momento della diagnosi prenatale di toxoplasmosi mentre nei restanti 9 casi l’idrocefalia è comparsa nel corso di poche settimane di follow-up prima dell’interruzione]. Il dato principale riguarda però i rimanenti 6 casi in cui, per la precocità dell’infezione materna ed il conseguente elevato rischio di danni fetali, la coppia aveva richiesto espressamente l’aborto terapeutico: ebbene, in tutti e 6 i casi all’autopsia sono state evidenziate multiple zone di necrosi cerebrale e/o aree ascessuali anche vaste, che avrebbero certamente comportato gravi sequele alla nascita e che non era stato possibile evidenziare all’ecografia. Un ultimo cenno riguarda l’evidenziazione ecografica delle calcificazioni cerebrali. Tali calcificazioni corrispondono anatomo-patologicamente ad aree di necrosi cerebrale focale che, per la loro debole ecogenicità, sono difficilmente evidenziabili con le usuali tecniche ecografiche, ma sono ben evidenti dopo la nascita alla TAC o all’ecografia trans-fontanellare con sonde ad elevata frequenza. Anche se non vi sono ancora dettagliati studi al riguardo, è ipotizzabile che mediante un approccio trans-vaginale con sonde ad elevata frequenza (6-7 MHz) la sensibilità dell’esame ecografico prenatale nell’identificazione di tali lesioni cerebrali migliori nettamente.

 Management clinico (Tab. IV)

Il primo passo è quello di datare l’infezione materna, il che risulta talvolta alquanto difficoltoso se teniamo conto di quanto riportato precedentemente. Una volta valutato il pattern sierologico materno e, quindi, il rischio di trasmissione verticale (vedi paragrafi precedenti), viene eseguita la diagnosi prenatale allo scopo di accertare l’avvenuta infezione fetale e scegliere il trattamento più adeguato. In caso di infezione materna nel III trimestre, l’unica opzione disponibile è quella di istituire subito la terapia specifica, scegliendo tra spiramicina e pirimetamina-sulfamidici sulla base del risultato della diagnosi prenatale (vedi paragrafo successivo), sì da ridurre al minimo l’incidenza di forme cliniche neonatali, peraltro rare in caso di infezione tardiva. Il counselling ed il management sono invece alquanto difficoltosi in caso di sieroconversione materna nel I e II trimestre, dal momento che sia il corso naturale dell’infezione sia il reale effetto delle varie terapie farmacologiche disponibili non sono ancora ben chiari. In ogni caso, non appena è stata accertata la sieroconversione materna, è necessario somministrare spiramicina a dosi piene e procedere alla diagnosi prenatale. Uno degli scopi principali della diagnosi prenatale di infezione da Toxoplasma è quello di limitare l’incredibilmente elevato numero di ingiustificati aborti "terapeutici" di feti che non hanno contratto l’infezione o che hanno pochissime possibilità di avere sequele alla nascita. Inoltre, in caso di avvenuta infezione fetale, è necessario modificare l’approccio terapeutico dalla spiramicina alla pirimetamina ± sulfamidici (vedi paragrafo successivo) allo scopo di raggiungere il compartimento fetale, dal momento che la spiramicina non oltrepassa la barriera placentare. Per ciò che concerne il management clinico, controverso è il ricorso all’interruzione di gravidanza per infezione fetale da sieroconversione materna avvenuta nel I trimestre. Alcuni Autori (21) ritengono che, per l’elevata incidenza di lesioni cerebrali gravi riportata precedentemente, tale opzione debba essere offerta. Altri (22) non hanno confermato, in una serie di 163 pazienti trattate con spiramicina o pirimetamina-sulfamidici, tale elevata incidenza di sequele neonatali gravi, riportando normale sviluppo neurologico ed assenza di sintomi per i 27 neonati con toxoplasmosi congenita alla nascita, anche se in questa seconda serie l’epoca media di infezione materna era lievemente più avanzata che nello studio precedente. Dall’evidente discrepanza tra questi due reports, peraltro entrambi francesi, emerge la difficoltà di eseguire un adeguato counselling prenatale in caso di infezione fetale precoce da Toxoplasma. Per sieroconversione materna e successiva infezione fetale nel corso del II trimestre, può essere il caso di eseguire ecografie seriate per valutare l’eventuale insorgenza di lesioni Toxoplasma-indotte, che rappresenterebbero indicazione ad eventuale aborto terapeutico. Fondamentale è però soprattutto un accurato counselling prenatale, possibilmente con uno psicologo, per discutere insieme alla coppia del rischio effettivo di sequele gravi alla nascita (sulla base dell’epoca d’infezione materna e del risultato dei vari test fetali) e della situazione familiare ed emotiva dei genitori. In conclusione di questo paragrafo ci sembra però opportuno sottolineare come le incertezze espresse riguardino solamente i feti con toxoplasmosi accertata dopo sieroconversione materna precoce, che rappresentano, per fortuna, la minoranza dei casi. Il ruolo della diagnosi prenatale è soprattutto quello di dimostrare l’assenza di infezione fetale al momento della somministrazione della spiramicina, sì da tranquillizzare le coppie in attesa e di ridurre il ricorso indiscriminato all’aborto "terapeutico" di feti sani.

Terapia

Come affermato a proposito della trasmissione verticale, l’antibioticoterapia materna instaurata al riscontro di sieropositività per IgM anti-Toxoplasma riduce drasticamente l’incidenza di sequele gravi alla nascita (20). L’antibiotico di prima scelta è la spiramicina, che ha azione batteriostatica nei confronti del Toxoplasma e che si concentra a livello deciduale, senza però superare la barriera placentare. La spiramicina è in vendita in compresse da 3 milioni di U.I. ed il dosaggio usuale è di 3 compresse/die sino a termine di gravidanza (eventualmente con periodi di sospensione di una settimana). Tale antibiotico è un macrolide e, pertanto, viene catabolizzato prevalentemente a livello epatico. Ne consegue che il suo utilizzo va limitato o proscritto del tutto in caso di sofferenza epatica materna. In caso di infezione fetale accertata, in genere si passa ad una poli-chemioterapia con pirimetamina e sulfamidici che oltrepassano la barriera placentare divenendo disponibili nel distretto fetale (23), somministrati secondo diversi schemi terapeutici. In Italia, la pirimetamina non è disponibile in preparazione commerciale e deve essere pertanto prescritta come preparazione galenica. Tale poli-chemioterapia viene di solito somministrata in associazione con acido folico ed a cicli alternati di 20-30 giorni con la spiramicina. Tuttavia, anche con questa modalità di somministrazione possono osservarsi frequentemente effetti collaterali gastro-intestinali e tossicità da inibizione della folato-reduttasi. Alcuni Autori hanno recentemente effettuato una meta-analisi della letteratura su pazienti trattate alternativamente con spiramicina e pirimetamina-sulfamidici ed hanno successivamente paragonato l’outcome feto-neonatale di questi casi all’outcome di una serie decennale di pazienti trattate con sola spiramicina presso un singolo centro, non riscontrando alcuna differenza nell’incidenza di forme neonatali gravi (24). Non è però possibile decidere di adottare nella pratica clinica la somministrazione in mono-chemioterapia della spiramicina indipendentemente dalla presenza o meno di infezione fetale senza il conforto di trials clinici prospettici randomizzati. Tuttavia, l’impostazione di tali studi è, a nostro avviso, difficile in quanto probabilmente sarebbero ritenuti "non eticamente corretti" dalla maggior parte dei comitati etici delle diverse istituzioni, dal momento che vi è ampia evidenza, supportata dalla diversa farmacocinetica dei due regimi terapeutici, dell’efficacia dell’associazione pirimetamina-sulfamidici nel ridurre l’incidenza di toxoplasmosi congenita grave (20,23).

Profilassi della toxoplasmosi in gravidanza

Per effettuare un’efficace profilassi, è necessario considerare che questa parassitosi si contrae entrando in contatto con le oocisti contenute nelle feci di gatto, nella carne infetta cruda o poco cotta, nella verdura e nella frutta non ben lavata. I criteri per un’adeguata profilassi devono essere illustrati a tutte le donne che, al controllo pre-concezionale o alla prima visita in gravidanza, risultino suscettibili alla toxoplasmosi (IgG-negative). Tali criteri sono rappresentati da: 1) evitare di mangiare carne cruda o poco cotta, insaccati e uova crude; 2) lavare con cura verdure e frutta; 3) evitare, se possibile, contatti con gatti; 4) se si dispone di un giardino evitare di effettuare giardinaggio.

In questa sede è però necessario sottolineare che alla base di tale profilassi è l’attuazione di uno screening che identifichi le donne suscettibili all’infezione (IgG-negative). Se tale screening viene considerato appropriato per la rosolia e per l’infezione da CMV, in considerazione della loro prevalenza, del tasso di trasmissione verticale e dell’efficacia delle misure preventive (vaccinazione), molti Autori e molti paesi (tra cui i paesi scandinavi e gli USA) non sono d’accordo nel ritenere lo screening della toxoplasmosi in gravidanza giustificato da un punto di vista costi-benefici. In particolare, si ritiene che la relativamente bassa prevalenza della condizione, l’assenza di metodi diagnostici accurati (sino a quando la PCR su liquido amniotico non sarà standardizzata) e la non conclusiva evidenza dell’efficacia dei vari regimi terapeutici (mancano studi prospettici randomizzati anche per la sola spiramicina) inficiano alla base l’efficacia della procedura di screening per la toxoplasmosi in gravidanza. Ulteriori dubbi sono legati agli effetti negativi della procedura di screening, peraltro non valutabili in modo adeguato, quali l’incontrollato utilizzo di tecniche invasive per la diagnosi prenatale, il ricorso indiscriminato all’aborto terapeutico di feti sani, il carico di stress per le donne con tests falsamente positivi, l’entità degli effetti collaterali del trattamento farmacologico (pirimetamina e sulfamidici) (25, 26).

A conclusione di questo paragrafo, è necessario comunque riaffermare che in Italia è prevista dagli organi governativi tale procedura di screening per la donna gravida al I trimestre (esami del gruppo TORCH) secondo l’ultimo Decreto Guzzanti che regola la prescrizione degli esami in gravidanza e, pertanto, l’astenersi dal prescrivere tale tipo di valutazione potrebbe costituire motivo di contenzioso medico-legale in caso di successivi danni feto-neonatali.

Conclusioni 

A conclusione di questo capitolo ci sembra fondamentale riportare le seguenti considerazioni:

• è buona norma richiedere una valutazione dello stato immunologico delle pazienti in epoca pre-concezionale;

• uno screening per il gruppo TORCH va richiesto quanto prima possibile nel corso della gestazione, per avere un parametro di base con cui confrontare le successive valutazioni della situazione immunitaria materna;

• in caso di sospetta o certa sieroconversione materna o anche in caso di semplice contatto con possibili fonti di contagio (specialmente in caso di rosolia), è necessario riferire la paziente ad un centro di II livello per un adeguato management materno-fetale. Solo i centri di riferimento specialistici dispongono delle risorse e dell’esperienza necessaria per un’accurata gestione del problema;

• allo stesso tempo, diffidare di test positivi (soprattutto la PCR) eseguiti in centri e laboratori non accreditati;

• astenersi dall’indirizzare la paziente verso l’interruzione della gravidanza nel II trimestre ex lege 194, senza aver prima riferito la paziente stessa ad un centro di riferimento per le malattie infettive in gravidanza, dal momento che comunque, come esposto in questo capitolo, il rischio di severi danni fetali e di importanti sequele neonatali è molto basso nella maggior parte dei casi.

Addendum

Al momento di andare in stampa, è stato pubblicato un aggiornamento del decreto che regolamenta la prescrizione degli esami laboratoristici in gravidanza (Decreto 10 settembre 1998 del Ministero della Sanità On. Rosy Bindi, pubblicato sulla G.U.del 20-10-98). Per ciò che concerne direttamente gli scopi di questo capitolo, si fa presente che nel I trimestre non è più possibile richiedere la valutazione dello stato immunitario per il gruppo TORCH in toto, laddove sono previsti in regime di esclusione dalla partecipazione al costo (ticket) solo i prelievi per la valutazione di IgG ed IgM contro Rosolia e Toxoplasma.Pertanto, è importante tener presente nella valutazione delle Tabelle I, II, IV che alla voce TORCH va sostituita la valutazione dei soli anticopri di cui sopra. Soprattutto nell’interpretazione della Tabella II, è necessario considerare che l’eventuale prescrizione preconcezionale o in gravidanza della valutazione di IgG e IgM anti-CMV non è più coperta dal SSN.Ovviamente, in caso di segni ecografici di infezione, tale situazione non sussiste più in quanto la gestazione diventa "a rischio" e quindi diviene possibile effettuare ogni indagine atta al riconoscimento della noxa patogena responsabile dell’anomalia evidenziata ecograficamente.